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La morte ai tempi del coronavirus. L'antropologa: ''Non poter dire addio ci sconvolge, il lutto ci rende umani e va al di là delle religioni''

Ai tempi del coronavirus si muore soli: i familiari sono lontani, non sono accanto alla persona che amano, e non possono nemmeno salutarla degnamente. Il fatto che venga meno quello che potremmo definire "culto dei morti" segna una frattura, eccezionale. Marta Villa, docente di antropologia culturale: "La devozione dei defunti trascende la religione perché caratterizza tutte le culture, di tutte le epoche. E' una caratteristica intrinseca del nostro essere umani"

Di Arianna Viesi - 27 March 2020 - 22:56

TRENTO. "Davanti alla tragedia che stiamo affrontando la psicologia può, certamente, dare delle risposte individuali (QUI per approfondire). L'antropologia, invece, ci può dare uno sguardo collettivo, del gruppo umano".

 

Parla così Marta Villa, docente di antropologia culturale all'Università di Trento, alla luce dell'emergenza sanitaria che sta sconvolgendo le nostre vite: come singoli individui, in primis, e, quindi, come collettività umana. Il virus, ormai, ha toccato tutti i continenti, ha travalicato confini e oceani. Tutti ne siamo colpiti. L'antropologia può aiutarci a leggere questo momento, e a farne tesoro. 

 

La cosa con la quale fatichiamo maggiormente a fare i conti non è l'isolamento (nonostante l'essere umano sia animale sociale) né tanto meno la paura. Si fa fatica, certo. Ma la ferita che dovremo affrontare poi, come comunità, sarà quella del lutto "mutilato". Ai tempi del Coronavirus si muore soli: i familiari sono lontani, non sono accanto alla persona che amano nel momento della morte, e non possono nemmeno salutarla degnamente. Il fatto che venga meno quello che potremmo definire "culto dei morti" segna una frattura, eccezionale, dal punto di vista storico, culturale e, quindi, antropologico.

 

"La relazione con la morte - spiega Marta Villa - e la devozione dei defunti sono una delle cosiddette costanti antropologiche. Le costanti antropologiche non sono molte. Ma cosa significa? Significa che, in questo caso, siamo di fronte ad un meccanismo culturale profondissimo. La devozione dei defunti trascende la religione perché caratterizza tutte le culture, di tutte le epoche. Le culture umane sono differenti certo, ma ci sono delle costanti in tutta l'umanità. Il cibo, e il modo di concepirlo, ad esempio, è una di queste. In tutte le culture il cibo è visto come un momento conviviale, di condivisione. Noi uomini addomestichiamo il cibo e, allo stesso modo, in un certo senso, addomestichiamo la morte".

 

C'è un momento preciso, nella storia dell'umanità, in cui l'uomo ha iniziato a seppellire ed onorare i defunti. Si trattò di un salto culturale enorme.

 

"Proprio quando un gruppo umano, per la prima volta, ha deciso di seppellire un proprio caro, è nata la religione, la spiritualità. Siamo di fronte ad una pratica che parte dall'uomo di Neanderthal. Gli archeologi hanno trovato, in Medio Oriente, la prima tomba ascrivibile a quest'epoca. Sulle ossa sono stati trovati anche dei pollini. Questo vuol dire che, in qualche modo, si è anche celebrata una cerimonia funebre, c'è stato un rito. Prima i morti si lasciavano indietro, come gli animali, o morivano appartati. Ad un certo punto della sua storia, l'umanità fa un salto destinato a cambiarne le sorti".

 

Insomma, con l'uomo di Neanderthal iniziano la sepoltura e il culto dei defunti. Una pratica, culturale, che ci accompagna dalla notte dei tempi, che non si è mai interrotta in alcuna società e in alcun periodo. Una pratica, questa, che trascende le religioni e le epoche. Per questo le pestilenze - le uniche in grado di sospendere, per un lasso di tempo più o meno dilatato, questa pratica - sconvolgono le società. Perché, di fatto, interrompono una delle cose che, da millenni, ci rende quello che siamo: uomini.  

 

"Si pensi, per citare il Manzoni, ai morti accatastati dai monatti e buttati nelle fosse comuni. La pandemia ci riporta lì, a quella sospensione della venerazione dei morti - spiega l'antropologa -. Ed è questa, al di là delle necessarie restrizioni, la cosa che ha colpito di più. Perché il cordoglio nei confronti dei morti è una caratteristica intrinseca del nostro essere umani".

 

"Ce lo insegnano anche la mitologia, la letteratura - continua -. Ma anche il mondo folklorico-popolare ci ricorda l'importanza di dare un ultimo saluto al defunto.

In tutte le culture il mondo dei vivi e quello dei morti sono mondi che devono stare separati ma devono, comunque, avere un transito, un momento di passaggio. Nella cultura romana, ad esempio, ai morti veniva messa una moneta in bocca da dare a Caronte, il traghettatore dell'Ade. Ci sono culture dove si fanno doppie o triple sepolture. Tutti gli uomini seppelliscono, tutti gli uomini salutano i morti. Ogni cultura, insomma, ha trovato il proprio modo di addomesticare la morte".

 

Non solo il virus ci preclude la possibilità di celebrare, con un rito (il funerale nel mondo cristiano), i defunti. L'ospedalizzazione (indispensabile) dei malati impedisce anche ai loro cari di salutarli, un'ultima volta.

 

"Essendo un'epidemia gestita a carattere sanitario, perché c'è una giusta attenzione al contenimento dei contagi - commenta Villa - non possiamo salutare i nostri cari nel momento del trapasso. In tutte le culture, compresa la nostra, chi sta morendo solitamente è accerchiato dal proprio clan, dal proprio gruppo familiare. Si tratta di una fase molto sentita. Anche in letteratura l'abbiamo visto spesso: si raccolgono le ultime parole che, soprattutto se la persona è anziana, sono parole di saggezza. Con il coronavirus, invece, la morte è solitaria: non ci si può avvicinare, non si può essere in contatto con persona ammalata. Si rompe, insomma, questo momento culturale: il fatto di poter accompagnare il momento della morte, il fatto di poter alleviare con la presenza del gruppo il momento del distacco da questa vita".

 

La pandemia sta, quindi, turbando una componente fondamentale del nostro essere uomini. Siamo in un'emergenza ed è giusto che, anche se a fatica e con dolore, tutti si attengano alle direttive che vengono date. Ma è giusto, anche, riflettere su quello che sta succedendo per poterlo elaborare, poi, quando tutto sarà finito.

 

"Il funerale (che altro non è che uno dei tanti riti con cui il genere umano saluta i propri cari) ha a che fare, poi, con la gestione collettiva del dolore. Ci sono dei riti che servono ai vivi per poter capire quello che è successo. Si pensi, appunto, all'accompagnamento durante il momento del trapasso, o alla tradizione di vestizione del morto. Sono azioni rituali, presenti in tutte le culture, che aiutano ad accettare, ad addomesticare la morte".

 

Quando l'uomo ha iniziato ad addomesticare la morte, è nata la spiritualità, l'idea di un altrove. L'umanità ha fatto, così, un salto evolutivo enorme che, ancora oggi, si fa fatica a spiegare.

 

"Anche la devozione dei morti, così come la scoperta del fuoco, fa parte di quei balzi che ha fatto l'umanità - commenta Marta Villa -. Fu determinato da un mutamento, da un'evoluzione del cervello. Anche il pensiero spirituale è un pensiero cerebrale, è una cosa umana. Questi passaggi culturali, come l'addomesticamento del cibo e della morte, ne generarono altri. Quando l'uomo iniziò a seppellire i morti, nacquero la religione e le divinità. Perché seppellire un morto presuppone che tu creda che ci sia un altrove, un'aldilà".  

 

Ed è interessante, e commovente, vedere come da sempre la morte sia vista, in ogni cultura, come un ritorno a ciò che si era: come se inizio e fine coincidessero.

 

"I morti, all'inizio della storia umana, erano dedicati a divinità femminili. I morti, infatti, erano seppelliti in posizione fetale. Un pensiero raffinatissimo, se ci si pensa. Fare sepolture simili è come affermare che nascita e morte sono la stessa cosa, quando muori ritorni da dove sei venuto. Si tratta di un pensiero estremamente intenso".

 

Insomma, tutto tiene, come direbbe qualcuno. Nella morte ci riconosciamo umani. Forse è proprio per questo che il virus ci fa paura. Perché ci toglie una cosa che abbiamo da sempre, e che avremo per sempre: poter salutare, degnamente, i nostri cari. 

 

"E' interessante notare come, anche nelle popolazioni nomadi, le sepolture siano comunque 'sedentarie'. Anche le tribù nomadi, nel loro giro transumante, hanno dei luoghi deputati al culto e alla sepoltura dei morti e tornano sempre lì. Anche il nostro primo novembre non è un caso sia lì e che il cristianesimo lo abbia reso un momento importante. Tutte le culture del mondo hanno un momento dell'anno legato al ricordo dei morti".

 

"Questa cosa non si è mai interrotta - conclude l'antropologa -, se non per eventi eccezionali come le pestilenze appunto. Ecco perché ci sconvolge quest'emergenza: perché questa cosa prescinde anche dalla religione. È una cosa umana, semplicemente, troppo umana. È una pietas che abbiamo e che va al di là del bene e del male, che si deve riservare anche a un nemico. In tutte le guerre c'è una tregua per seppellire i morti. Insomma, non c'è quasi nulla che ha interrotto questa pratica. Perché è molto più profonda delle religioni, è una costante antropologica che viene meno e, venendo meno, ci destabilizza sia individualmente sia collettivamente".

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