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In un museo di Merano è custodito un mantello etiope, va riportato in Africa? Una mostra prova a rispondere. Obermair: “Poniamo la domanda agli spettatori”

Sabato 4 settembre si apre nella casa/museo meranese di Villa Freischütz una mostra su un mantello etiope trovato nella grande collezione lì custodita. La questione, lanciata dai curatori, è quella della restituzione. Lo storico Obermair: “Cerchiamo di inserirci nel dibattito europeo sul post-colonialismo”

Credits to Georg Tappainer
Di Davide Leveghi - 01 settembre 2021 - 18:08

TRENTO. “Villa Freischütz prova a lanciare un sasso nello stagno, cercando di produrre anche nel nostro Paese un dibattito sul post-colonialismo”. Lo storico Hannes Obermair definisce così l’ultima iniziativa della villa/museo meranese, protagonista dal primo fine settimana di settembre di una mostra decisamente originale per la sua collocazione. Cosa ci fa infatti un mantello etiope in una collezione privata fra le Alpi sudtirolesi? E quali prospettive apre?

 

In quella che fu la villa della famiglia Fromm, ora divenuta museo, è stato ritrovato un mantello appartenente probabilmente ad un ras abissino, figura centrale nella gerarchia sociale e militare dell’impero etiope, guidato fino all’aggressione italiana del 1935 (QUI un approfondimento) dal negus Hailé Salassié. Tra le centinaia e centinaia di manufatti raccolti nello scorrere delle generazioni, nella lussuosa abitazione della città termale è comparso anche questo oggetto, “bottino di guerra” del generale Enea Navarini, marito di Luisa Fromm, figlia di Franz, il commerciante collezionista che comprò la casa.

 

Attorno al mantello, i curatori della mostra – lo storico sudtirolese Hannes Obermair e la dottoressa Ariana Karbe – hanno così deciso di aprire un dibattito, squarciando dal piccolo della casa/museo meranese lo spesso velo che avvolge la conoscenza e la presa di coscienza diffusa del colonialismo italiano da parte degli italiani stessi. Ma non solo, l’idea è di portare anche in Italia una questione da tempo discussa in tutti i principali Paesi europei: bisogna restituire i manufatti prelevati nelle colonie? E se sì, come?

 

Non sappiamo come il generale Enea Navarini sia venuto in possesso del mantello – spiega Obermair, raggiunto al telefono da il Dolomiti quello che a noi interessa, semmai, è che si tratti di un pezzo coloniale. La mostra, dunque, si concentra su questo oggetto, ponendo una grande domanda sul colonialismo in una prospettiva post-coloniale. Vogliamo sollevare, con la partecipazione diretta sia degli spettatori che della controparte etiope, la questione della restituzione”.

 

Per fare ciò, spiega lo storico – già protagonista della musealizzazione del Monumento alla Vittoria e del depotenziamento del bassorilievo di Hans Piffrader, entrambi a Bolzano – è necessario avviare un dialogo con l’ex colonia, aprendo un filo diretto che non releghi l’ex colonizzato a soggetto passivo ma lo riconosca come pari. “Dobbiamo stare attenti, perché nel nostro sguardo alla questione rischiamo di non renderci conto che si tratta di uno sguardo bianco ed europeo. Non dobbiamo replicare le dinamiche coloniali e per questo è necessario trovare un interlocutore in Etiopia”, continua.

 

“Si tratta di cominciare un percorso e noi qui cerchiamo di farlo con una mostra che coinvolga gli spettatori. Ricostruiamo il cosmo in cui avvenne l’arrivo del mantello a Merano, inserendo domande difficili e uno sguardo critico. Ci vogliamo inserire, nel nostro piccolo, in un dibattito molto aperto, su cui tanto si sta discutendo in Germania o Francia, molto meno in Italia. Per questo abbiamo deciso di dedicare la mostra alla memoria di Angelo Del Boca, figura poco ricordata dopo la sua recente scomparsa, ma stella polare del dibattito sul colonialismo in Italia. Fu lui per primo, infatti, a cercare di sentire anche l’altra campana, cioè gli etiopi che subirono l’aggressione italiana”.

 

L’obiettivo, spiega ancora Obermair, è quindi quello di “creare coscienza, offrire opportunità di riflessione critica e seminare concetti che non hanno ancora attecchito nel nostro Paese”, in particolare afferenti al dibattito post-colonialista. Il nocciolo del problema, nondimeno, rimane ancora la scarsa conoscenza tra la popolazione della penisola dei crimini compiuti nelle colonie.

 

“La cultura generale in Italia è poco predisposta a parlare di colonialismo – prosegue – ad eccezione del dibattito accademico, la conoscenza del passato coloniale nazionale non si è sedimentata nell’opinione pubblica, creando coscienza critica. Non c’è stata alcuna opera di decostruzione del colonialismo, dei suoi retaggi e del suo linguaggio. Il tema profondo, fatto emergere proprio da Del Boca, è sempre quello degli ‘Italiani brava gente’, di un colonialismo in fondo buono, più umano. Non si conoscono invece degli aspetti decisivi, che cancellano ogni differenza con gli altri colonialismi”.

 

“L’Etiopia fu ad esempio il primo luogo facente parte del territorio italiano in cui si applicarono le leggi razziali, ben prima del 1938 e delle disposizioni antisemite. Nella colonia si impose così un regime d’apartheid, in cui c’erano bianchi dominatori e neri posti ai margini della società. A decenni di distanza, l’Italia democratica si è trovata di fronte a questi temi, palesando grandi difficoltà ad affrontarli. L’unico caso di restituzione fra tutti gli oggetti coloniali è stato quello della stele di Axum, ridata agli etiopi con notevole ritardo rispetto agli accordi del dopoguerra. Moltissime collezioni etnografiche, invece, si trovano ancora sul suolo italiano. Per questo noi, come Villa Freischütz, vogliamo lanciare un sasso nello stagno, così da creare dibattito”.

 

Restituire solamente, come detto, finirebbe però per non creare un cambiamento nella coscienza collettiva. Il rischio è che tutto si limiti ad un atto, doveroso, ma svuotato della sua portata culturale radicale. “La restituzione è un processo – conclude Obermair – la presenza di questi manufatti è stata tuttavia decennale, ne abbiamo usufruito, e più che di restituzione sarebbe meglio parlare di riparazione. È qualcosa che sottende un coinvolgimento dell’altra parte, oltre alla creazione di una coscienza critica. La sola restituzione rischia di essere asimmetrica, mentre noi vogliamo dar vita a un processo il più partecipativo possibile, aperto e dinamico”.

 

L’inaugurazione della mostra avverrà nelle giornate di sabato 4 settembre (dalle ore 16 alle ore 19) e domenica 5 (dalle ore 10 alle ore 13), con l’opportunità di dialogare sul tema in compagnia dei due curatori. L’esposizione sarà poi visitabile da lunedì 6 settembre a sabato 6 novembre. Maggiori informazioni sono disponibili sul sito del Museo (QUI il link). 

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