L'Italia paese smemorato: la Grande Guerra in Trentino al di là delle narrazioni nazionalistiche
L'Italia è un Paese singolare che trova nelle regioni di confine un luogo privilegiato d’osservazione delle contraddizioni nazionali, riaffioranti in tutta la loro forza in occasioni speciali come le commemorazioni ufficiali, celebrazioni troppo spesso costruite su evidenti falle della memoria

TRENTO. L’Italia è un paese singolare, ma ancora di più il rapporto tra il popolo italiano e la sua storia. Un rapporto a singhiozzo, sempre alternato da gonfiamenti di petto per i fasti passati e clamorosi vuoti di memoria sugli “incidenti di percorso” nella costruzione della Nazione.
Una singolarità che trova nelle regioni di confine un luogo privilegiato d’osservazione delle contraddizioni nazionali, riaffioranti in tutta la loro forza in occasioni speciali come le commemorazioni ufficiali, celebrazioni troppo spesso costruite su evidenti falle della memoria (si pensi al confine orientale e al “giorno del ricordo”).
L’Adunata degli Alpini 2018 di Trento è la conferma, e non solo per la palese contradditorietà di una festa della pace organizzata da un’associazione legata all’esercito.
È il portato nazionalistico ciò che più di tutto dev’essere smascherato, la sua narrazione distorta che relega nel dimenticatoio della storia la vicenda del popolo trentino nella Grande Guerra.
Una memoria dei vinti cancellata dall’Italia liberale e dal fascismo, sbandierata ora da improbabili nostalgici di una mai esistita Austria felix. Un passato che, in quanto mai del tutto assimilato, ritorna tristemente in polemiche come quella sul “disertore Cesare Battisti”.
Un portato di sofferenze e dolori di una popolazione travolta dalla “guerra totale” e deportata in campi profughi e internamento, ridotto a una superficiale semplificazione che vede contrapposte penne nere a piume di fagiano.
È evidente che le polemiche scaturite dalla scelta di Trento come luogo per l’adunata celebrativa del centenario della Prima Guerra Mondiale siano viziate da valutazioni storiche per lo meno discutibili, se non da vere e proprie mistificazioni. Ed è forse necessario offrire nuovamente qualche cifra che dia un’idea del quadro in cui i trentini vissero la Grande Guerra.
La popolazione trentina del tempo (comprendente l’Ampezzano) contava circa 390 mila persone, e la mobilitazione impartita dall’imperatore Francesco Giuseppe del 31 luglio ’14 ne avviò alla guerra circa 55 mila. La grandissima parte venne inviata presso il fronte galiziano, tra le attuali Ucraina e Polonia, a combattere contro l’esercito russo.
Gli irredentisti invece, raccolti in gran parte nella Legione Trentina, contavano circa 700 combattenti, provenienti per lo più dalle classi agiate e medio-piccolo borghesi. Il bilancio della guerra si presenterà pesantissimo, con 11 mila morti e 14 mila feriti.
Sul territorio trentino si visse un dramma altrettanto sconvolgente. A seguito dell’entrata in guerra del Regno d’Italia, nel maggio 1915, 105 mila civili verranno evacuati dalla regione. Settantasette mila vennero sfollati nell’Impero, in svariati campi profughi d’Austria, Moravia e Boemia, mentre i restanti 29 mila, in virtù dell’avanzamento italiano del fronte, vennero evacuati nel 1916 dalle autorità del Regno in numerose località della penisola.
Nel primo caso venne messo in atto un piano preordinato, non essendo quella dei trentini una condizione eccezionale (situazione analoga venne vissuta dalle popolazioni che vivevano nei pressi del restante fronte italiano, del serbo e del russo. Gli sfollati durante la guerra europea furono 15 milioni), mentre nel secondo le autorità italiane si trovarono inizialmente impreparate, giungendo solo in un momento successivo a istituire un sistema d’assistenza funzionale.
Militarizzazione della vita di campo, pessime condizioni igieniche e diffusa diffidenza verso una popolazione considerata da chi troppo filo-italiana e da chi troppo austriacante, caratterizzarono i duri anni di internamento.
Tali dati servono a contestualizzare una realtà che l’analisi storica interpreta, cercando scientificamente di indagare un evento storico in maniera più obiettiva possibile. Le coscienze storiche nazionali, però, sono tutt’altro che immuni da orientamenti nazionalistici.
La storia della guerra non diviene più dunque racconto e analisi degli uomini che combatterono nelle trincee, quanto una versione aristocratica della guerra degli ufficiali, delle armate, dei parlamenti, che s’arrogarono il diritto di rappresentare una supposta volontà popolare.
Così arriviamo a una rappresentazione del Trentino come di una terra in attesa della liberazione dal giogo austriaco o di un popolo profondamente legato da un’inscalfibile lealtà a “Sua Imperiale Maestà Apostolica Francesco Giuseppe”. Le semplificazioni sono nemiche d’una disciplina che acquista fascino e scientificità nella sua capacità di muoversi nell’universo della complessità, la vita degli uomini.
In tutta Europa, le classi subalterne si piegarono alla volontà dello Stato. Furono “per la prima volta espropriati radicalmente del tempo e della vita”, come scritto dallo storico Antonio Gibelli.
I trentini, popolo umile e contadino, non furono solo incompresi da un’autorità centrale autoritaria e ultraconservatrice, ma ripetutamente maltrattati nei campi come sul fronte. “Politicamente sospetto perché nazionalmente impuro”, venne malvisto in Austria-Ungheria come in Italia (Battisti annoterà nel proprio diario, in riferimento ai volontari trentini per l’Italia: “Più di uno dei nostri poveri morti deve la sua vita ad atti temerari, commessi per legittimo senso di ribellione e reazione alla sfiducia troppo spesso addimostrataci”), legato più alla territorialità che non a un’identità tirolese o italiana, identificato con la propria comunità più che con le Nazioni.
Ogni categoria politica (“irredentista”, “austriacante”) si mostra essere limitante e semplicistica di fronte a un ventaglio di atteggiamenti molto più sfumati, più ambigui, che i soldati come i civili trentini assumono nel corso della guerra.
È un dato che le simpatie filo-italiane aumentarono in virtù dei maltrattamenti degli ufficiali austro-ungarici e della propaganda italiana nei campi di prigionia russi, ma non furono certo il motore delle numerose diserzioni.
Il sentimento nazionale trentino fu in partenza incerto, e poi in balia degli eventi. L’annessione a guerra finita produrrà non poca delusione tra le difficoltà di una terra devastata e la rimozione di un passato scomodo.
Espressioni come “provocazione”, pronunciata dagli Schützen in riferimento alla scelta di Trento, o come “disertore”, riferito alla figura di Battisti, sono quindi ennesimi esempi di una semplificazione della complessità storica, una riduzione a slogan di un passato distorto dalle storiografie istituzionali e dalle agiografie nazionali.
L’uso del termine provocazione mi pare discutibile nella misura in cui gli Schützen cadono nell’identico errore degli Alpini: quello di non riconoscere, volutamente o meno, la complessità della società trentina del tempo e di assolutizzare in funzione nazionalistica l’adesione della popolazione locale alla causa dell’uno o dell’altro schieramento.
Il problema, a mio giudizio, non sta tanto in una supposta provocazione alla “memoria dei nostri nonni”, quanto ad un problema tutto italiano di rimozione della memoria, nell’Italia liberale prima, in quella fascista poi, ed infine nella storiografia istituzionale repubblicana.
Più che di una provocazione, in termini di storia nazionale, possiamo parlare di una prevaricazione della memoria ufficiale su una memoria locale. Si è dato vita, così, come sostenuto dallo storico Quinto Antonelli, a una “seconda memoria, sopraffatta da quella istituzionale, stabile e gerarchizzata, fondata sui racconti della mitologia nazionale”, e che perciò sopravvive nelle sole forme del “mormorio diffuso”.
Le polemiche attorno a Cesare Battisti palesano a loro volta le difficoltà nel liberarsi da incrostazioni ideologiche da parte di entrambi i fronti. Né la mitizzazione da parte italiana, della quale fu protagonista indiscusso il fascismo, né l’opera di delegittimazione da parte tirolese ed austriaca - che non mancano occasione di definirlo “disertore” - restituiscono a questa figura la giusta contestualizzazione nonché il suo reale lascito.
Un aneddoto raccontato dallo storico e giornalista pusterese Claus Gatterer simboleggia perfettamente il trattamento distorsivo a cui venne sottoposto Battisti.
Impegnato nell’opera di monumentalizzazione celebrativa della vittoria nella Prima Guerra Mondiale e nel culto dei “martiri per la patria”, il regime fascista decise nel 1926 di costruire a Bolzano un altare della Vittoria sulle rovine di un monumento ai Kaiserjäger tirolesi.
L’intenzione iniziale di Mussolini, che già da tempo aveva cominciato ad adulare la moglie di Battisti nel tentativo di impossessarsi della figura dell’irredentista trentino, era quella di dedicargli il monumento. Di fronte al rifiuto netto di Ernesta Bittanti Battisti, il regime decise comunque di inserire nell’altare i busti dei tre più celebri irredentisti giustiziati dagli austriaci, Fabio Filzi, Damiano Chiesa e lo stesso Cesare Battisti.
Inviso alla popolazione germanofona, sottoposta a una brutale operazione di italianizzazione, il monumento divenne oggetto di sfogo dell’odio anti-italiano in occasione dell’occupazione nazista della città nel settembre 1943, quando i sudtirolesi s’accanirono contro i busti degli irredentisti.
Tale vicenda permette di calarsi in quella che Gatterer definisce espressione dell’ “inimicizia ereditaria” italo-austriaca. La memoria dell’irredentista fu predata dal fascismo, intento a ri-costruire i miti nazionali dopo la “vittoria mutilata”.
La moglie e la famiglia, dal canto loro, tentarono orgogliosamente di preservare questa memoria proseguendo sulla scia del pensiero socialista del Battisti (rinomato l’episodio che vide protagonista la moglie, quando, con i fascisti in giubilo nella città per l’uccisione di Matteotti, decise di coprire nella fossa del Buon Consiglio la lapide del marito con un drappo nero).
La strumentalizzazione fascista fece sì che agli occhi dei sudtirolesi e degli austriaci questa figura risultasse odiosa.
Un più approfondito studio della biografia di Cesare Battisti confuta gran parte del mito costruitogli attorno dall’una come dall’altra parte. Protagonista all’interno dell’Impero del travagliato percorso del cosiddetto austro-marxismo, dilaniato dalla questione nazionale, il capo del socialismo trentino si distinse per le battaglie in difesa degli italiani d’Austria, per l’ottenimento dell’autonomia trentina così come per quello dell’università di lingua italiana. Inserito a pieno titolo nella storia austro-ungarica, si decise per l’irredentismo solamente di fronte alla presa di coscienza dell’irriformabilità dell’Impero.
Unico deputato austriaco catturato da ufficiale di un esercito nemico, e perciò tuttora bollato come “traditore” e “disertore”, combatté sempre contro gli odi nazionali sia nel Parlamento di Vienna sia nelle trincee del Trentino.
Socialista internazionalista, appoggiò l’irredentismo trentino nella speranza, attraverso la guerra, della nascita di un’Europa di popoli affratellati. Per questo Cesare Battisti stride con una retorica nazionale aggressiva e istituzionale, a maggior ragione di un’Italia che da vittima dell’Austria “carcere dei popoli”, finisce per compiere lo stesso delitto inglobando a guerra finita territori alloglotti e mistilingui come l’attuale Südtirol e la zona tra l’Adriatico, la Carniola e l’Istria.
La memoria del Trentino e dei suoi protagonisti nella Prima Guerra Mondiale ci insegna molto. Se ben analizzata può svelare le mistificazioni operate da narrazioni settarie, illuminando alcune verità. Tra queste, e tale insegnamento appare tanto più utile di fronte agli scivolamenti nazionalistici di questa Europa in cisi di identità, vi è sicuramente la natura costruita delle Nazioni, il loro carattere di invenzioni, ciò che lo storico Benedict Anderson chiama “comunità immaginate”, e, si può aggiungere, immaginarie.
A chiosa di questa riflessione si può citare un passo dal diario di un soldato trentino prigioniero in Russia, Isidoro Simonetti di Saccone di Brentonico, contenuto nel libro I dimenticati della Grande Guerra di Quinto Antonelli (in un italiano stentato ma efficace): “la parola patria significa distruzione di povera gente. Io lascio memoria della mia conoscenza di quanto so, e che o visto: che la patria per la povera gente e il mondo intiero, dove si sta bene e patria; la casa sua i genitori, molie e fili queli sono la patria, e il resto e nulla altro che odio collera ed invidia”.
di Davide Leveghi
(nato a Trento nel 1993, diplomato al liceo classico Prati e laureato in storia all'università di Bologna. Specializzando in storia contemporanea)