Militari, droni e cani da guardia così la Polonia dà la caccia ai migranti: “Qui i diritti umani sono stati sospesi”. Il racconto della volontaria dal confine con la Bielorussia
Al confine fra Polonia e Bielorussia gli abusi e le violenze contro i migranti sono all’ordine del giorno. Non va meglio nei centri di accoglienza, quello della città di Wedrzyn è stato ribattezzato la “Guantanamo polacca”. Il racconto della volontaria italiana, Silvia Cavazzini: “In questa parte d’Europa i diritti umani sono sospesi”

VARSAVIA. Sono ancora centinaia i migranti bloccati Bielorussia, ammassati lungo il confine con la Polonia. Si tratta di profughi che arrivano soprattutto dal Medio Oriente, da zone di guerra, per cercare di ottenere asilo nell’Unione Europea. Le condizioni in cui si trovano però sono estreme. In questa stagione le temperature scendono anche di 20 gradi sotto lo zero, inoltre le persone che sono obbligate a sostare in Bielorussa spesso non hanno di che sfamarsi né tanto meno un posto dove stare. Come se non bastasse sia le autorità di Minsk che quelle di Varsavia non esitano a usare la violenza.
Spesso l’unica cosa su cui possono fare affidamento i migranti è un numero di telefono di emergenza. All’altro capo rispondono persone come Nawal Soufi, attivista per i diritti umani presente in Polonia dall’inizio della crisi migratoria. È stata lei a coordinare una parte dei volontari italiani che sono arrivati nell’est della Polonia. Fra questi c’era Silvia Cavazzini, 30enne partita lo scorso 29 novembre (ora rientrata in Italia) per raggiungere gli altri volontari. “Sono rimasta sul lato polacco della frontiera per due settimane e da lì rispondevamo alle emergenze e portavamo un aiuto a persone che rischiavano di morire di freddo, oppure acquistavamo beni di prima necessità. Qualsiasi nostro intervento si svolgeva sempre all’esterno della zona rossa, istituita a ottobre dal governo polacco, una zona nella quale non è consentito l’accesso a nessuno, nemmeno a chi porta aiuto umanitario”.
I migranti che si trovano in Bielorussia, soprattutto siriani e iracheni fra cui moltissimi curdi, sono costretti a vivere in campi profughi fatiscenti. “Viene loro offerta solo acqua sporca, a volte non ricevono cibo anche per tre giorni di fila, mentre le condizioni igieniche sono pessime”, spiega Cavazzini. In questi campi infestati da cimici e pulci non mancano i casi di scabbia. Il freddo poi non fa altro che peggiorare le condizioni di salute delle persone. “Quando le guardie di frontiera decidono arbitrariamente che è il momento di passare il confine, costringono i profughi a superare il filo spinato. Siamo a conoscenza di casi in cui i migranti vengono letteralmente lanciati dai militari bielorussi al di là del filo spinato”.

Emblematico il caso di una famiglia curdo-irachena che si era opposta a questo passaggio forzato, per via delle gravi condizioni di salute di uno dei figli. “Le guardie di frontiera hanno preso a calci la madre che si opponeva al trasferimento fino a causarle un’emorragia interna. Dopo averla curata, hanno comunque obbligato lei e la famiglia ad affrontare il freddo e la fame nei boschi polacchi”. Dopo 30 giorni nei campi bielorussi e una settimana nei boschi polacchi il figlio di 8 anni rischiava di perdere l’uso delle mani per una necrosi da congelamento. Fortunatamente, in questo momento, grazie a volontari italiani e polacchi, la famiglia ha ottenuto il supporto legale necessario per presentare una richiesta di asilo in Polonia, mentre il bambino ha potuto ricevere le cure mediche necessarie e la famiglia tutti i beni di prima necessità.
Non tutti però sono così fortunati. Alle porte d’Europa c’è anche chi non sopravvive. I volontari fanno il possibile per aiutarli. “Sfruttiamo le poche ore di luce per lasciare dei pacchi nei boschi fuori dalla zona rossa”, cioè quella parte di frontiera praticamente inaccessibile e pattugliata con mezzi militari, precisa Cavazzini. “Dentro lasciamo cibo a lunga conservazione, powerbank per ricaricare i cellulari, sciarpe, guanti e cappelli, calze, a volte anche giacche e sacchi a pelo”. In sostanza si cerca di aumentare le possibilità di sopravvivenza delle persone braccate in un limbo dalle autorità dei due Paesi.

“Le condizioni dei migranti quando si trovano in territorio polacco sono disperate – prosegue nel suo racconto la volontaria – si trovano a dover sopravvivere nei boschi senza niente. Le guardie di frontiera polacche hanno respinto le persone con l’uso di idranti, oppure hanno lasciato liberi i loro cani, che attaccavano i migranti compresi donne e bambini. Ad alcuni, nei vari tentativi di passaggio, sia le guardie di frontiera polacche che quelle bielorusse hanno rubato scarpe, giacche e sacchi a pelo e buttato le schede Sim e il supporto stesso per le Sim per impedire loro di utilizzare il cellulare. Per alcuni può essere una condanna a morte”. Non va meglio nei centri di accoglienza polacchi, secondo alcuni volontari il peggiore è quello che sorge nei pressi della città di Wedrzyn che è già stato ribattezzato la “Guantanamo polacca”.
Gli abusi al confine sono all’ordine del giorno, di fatto, denunciano i volontari, “in questa parte d’Europa i diritti umani sono sospesi”. Sono stati documentati casi in cui i nuclei famigliari sono stati volutamente divisi dalle guardie di frontiera, altre volte i migranti vengono derubati, ricattati e picchiati. A chi viene fermato in Polonia non viene concesso di presentare la richiesta di asilo e rischia di essere prima respinto in Bielorussia e poi rimpatriato nel Paese d’origine con la prospettiva di finire incarcerato, torturato o addirittura ucciso.

Questa cosiddetta “crisi dei migranti”, anche se molti la definiscono una vera e propria crisi umanitaria, è legata al braccio di ferro fra l’Unione europea e il governo di Minsk guidato da Aljaksandr Lukashenko, presidente dal 1994. “Quando l’Ue ha imposto delle sanzioni per la violenta repressione delle proteste che chiedevano più democrazia il regime ha deciso di rispondere utilizzando i migranti come arma di ricatto. Sono stati concessi migliaia di visti turistici a eritrei, siriani, afghani e iracheni, con la promessa che dall’aeroporto di Minsk l’ingresso in Europa sarebbe stato molto semplice”. In tutta risposta la Polonia ha alzato i muri di filo spinato istituendo la zona rossa e respingendo le persone che tentavano di varcare il confine.
“La militarizzazione che ho potuto sperimentare nelle due settimane trascorse al confine, pur stando sempre fuori dalla zona rossa, è agghiacciante”, ricorda Cavazzini. “Camionette militari ovunque, rumore dei droni nei boschi, posti di blocco continui in cui aprivano il bagagliaio non solo per controllare che non fossimo trafficanti, ma anche per controllare che non stessimo portando aiuto ai migranti”. Se Polonia, Lituania e Lettonia stanno rafforzando i controlli lungo i confini, dal canto suo l’Unione europea pare intenzionata ad agevolare i respingimenti varando un pacchetto di regole speciali che renderà più complicato per i migranti presentare una richiesta di asilo. È così che le porte d’Europa si chiudono per l’ennesima volta di fronte a un’emergenza.