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L'ombra del fascismo e il tecnico dimenticato. Storia di Vittorio Pozzo, l'allenatore “alpino” che condusse gli azzurri sul tetto del mondo
Il 2 marzo 1886 nasceva a Torino Vittorio Pozzo, unico allenatore nella storia ad aver vinto con la nazionale 2 mondiali e un'Olimpiade. Alla guida degli azzurri, portò l'Italia – allora fascista – sul tetto del mondo. E proprio il ruolo dato dal regime al calcio sancì la fine della sua esperienza e la damnatio memoriae di un tecnico inarrivabile

TRENTO. Centotrentacinque anni or sono, in una Torino che ormai si era dimenticata cosa volesse dire essere la capitale del Regno d’Italia, nasceva uno dei più grandi allenatori della storia del calcio italiano. La sua unica colpa? Aver allenato nel momento più “sbagliato” della storia dell’umanità e, di conseguenza, nel periodo peggiore per un tecnico. E questo condizionerà in maniera decisiva gli ultimi anni della sua carriera e il ricordo che tanti oggi hanno di lui.
Ad oggi Vittorio Pozzo, nato nel capoluogo piemontese il 2 marzo 1886, è l’unico Commissario Tecnico, nella ultranovantenaria storia dei Mondiali, capace di vincere due edizioni del Campionato del Mondo, per di più consecutivamente, nel 1934 e 1938. E, tanto per non farsi mancare nulla, nel 1936 guidò la Nazionale Italiana anche al successo nell’Olimpiade tedesca di Berlino.
Sì, proprio quella organizzata dal regime nazista, quella delle 4 medaglie di Jesse Owens, della quinta medaglia in cinque edizioni dei Giochi del canottiere britannico Jack Beresford, dell’oro negli 80 ostacoli di Trebisonda “Ondina” Valla, la prima di un’atleta italiana e dell’incredibile finale di basket tra Canada e Stati Uniti: vinsero i canadesi (oggi non succederebbe...) per 19 a 8 con dopo una partita giocata all’aperto, sotto una pioggia battente in un campo fangoso.
L'Olimpiade berlinese era stata immaginata per celebrare la grandezza del Reich, la vetrina mondiale per magnificare l'organizzazione tedesca. Le dittature totalitarie del '900, d'altronde, si caratterizzarono sempre per l'uso propagandistico dello sport e così avvenne anche per il calcio italiano durante il fascismo.
La famiglia di Vittorio Pozzo arrivava dalla provincia di Biella, terra di lane e telai, ma lui nasce e cresce a Torino. Frequenta il liceo Cavour e poi viaggia per l’Europa, studiando le lingue e il gioco del calcio, la sua più grande passione. Si reca in Francia, Svizzera e Inghilterra, a Manchester, dove assiste da vicino ad alcune delle imprese del primo grande United. In Svizzera gioca anche per una stagione, nel Grasshopper, poi rientra all’ombra della Mole e partecipa alla fondazione del Torino Football Club. Per cinque stagioni indossa la maglia granata, poi smette gli scarpini, diventa direttore tecnico del Toro e, contemporaneamente, viene assunto con un ruolo dirigenziale alla Pirelli.
La sua prima esperienza, nel 1912, sulla panchina azzurra è fallimentare, visto che l’Italia viene eliminata dalla Finlandia al primo turno delle Olimpiadi di Stoccolma. Pozzo, che oggi verrebbe definito un “hombre vertical”, si dimette e torna alla Pirelli. Poi arriva la Prima Guerra Mondiale, alla quale partecipa da tenente del Terzo Reggimento Alpini sul versante carsico, ritirandosi a Caporetto e difendendo la linea del Piave. I valori appresi in trincea saranno alla base anche del suo percorso d’allenatore: duro lavoro, onestà, rigore e spirito d’appartenenza Pozzo li rifletterà nella sua squadra.
Dopo il conflitto mondiale, nel 1921, gli viene dato l’incarico di studiare un progetto di riforma del campionato. Non vi riuscì ma, nel frattempo, tornò alla guida della Nazionale e nel ’24 divenne, per la seconda volta, Commissario Unico. Le Olimpiadi di Parigi sono avare di soddisfazioni e, una volta terminato l’impegno in terra francese, si dimette per restare a fianco della moglie malata, che a breve lo lascerà per sempre.
Pozzo si trasferisce a Milano, torna alla Pirelli e inizia anche il suo percorso da giornalista a La Stampa, professione che lo accompagnerà per tutto il resto della vita. Nel frattempo sulla panchina azzurra si succedono Augusto Rangone (dal 1925 al 1928) e Carlo Carcano (’28-’29), ma poi è Leandro Arpinati, protagonista assoluto dello squadrismo bolognese, dal 1926 al 1933 presidente della Figc, a chiedergli personalmente di tornare alla guida della Nazionale, carica che ricoprirà ininterrottamente sino al 1948.
Da quel momento, per la nostra Nazionale si aprì un decennio irripetibile e la figura di Pozzo fu centrale nei successi dei Mondiali del ’34 e del ’38 e dell’Olimpiade del ’36. Si disse che, prima degli incontri, era solito motivare i giocatori ricordando la battaglia del Piave e facendo cantare loro i cori degli Alpini (cosa sempre smentita da lui e da diversi dei suoi atleti). Forse, ma Pozzo allenatore era molto più di tutto ciò.
Sì, perché non si possono vincere due Mondiali e un’Olimpiade solamente “motivando” il gruppo. Pozzo era un sergente, fu tra i primi ad utilizzare in modo sistematico i ritiri per cementare lo spirito di squadra, era maniacale nella cura del dettaglio (impediva ai suoi giocatori di leggere i giornali e controllava personalmente la corrispondenza che arriva dall’esterno: le lettere indirizzate agli atleti venivano prima lette da lui e poi consegnate, aperte, agli interessati), organizzava in maniera "militare" la vita dei suoi giocatori, come si trovassero in caserma. A tavolino, come un generale, l'allenatore torinese studia la tattica, che in maniera infallibile la sua nazionale metterà in campo. E non si fece problemi a convocare gli oriundi in occasione del Mondiale del ’34. “Se possono morire per l’Italia, possono anche giocare per l’Italia” disse, stroncando sul nascere ogni polemica.
Ai Mondiali del ’34, che si disputarono in casa, l’Italia si sbarazzò agevolmente degli Stati Uniti negli ottavi di finale con la tripletta di Schiavio, l’attaccante più forte della storia della Bologna calcistica, la doppietta di Orsi (un oriundo, per l’appunto) e le reti di Ferrari e Giuseppe Meazza. Nei quarti l’avversaria fu la Spagna di Zamora, autore di una prestazione che le cronache dell’epoca definiscono “superba”: 1 a 1 nella prima sfida con gol di Ferrari al termine dei tempi supplementari e, visto che i calci di rigore non erano ancora contemplati dal regolamento, il giorno successivo si rigiocò. E questa volta l’Italia vinse per 1 a 0 con gol di Meazza.
In semifinale la temibile Austria, guidata dal fenomeno Matthias Sindelar, venne superata per 1 a 0 a San Siro (poi ribattezzato “Giuseppe Meazza”) con il gol di un altro oriundo, Enrique Guaita, mentre la finalissima a Roma allo “Stadio Nazionale del Partito Nazionale Fascista”, vide l’Italia imporsi per 2 a 1 sulla Cecoslovacchia dopo i tempi supplementari. I cechi colpirono tre pali, passarono in vantaggio con Puc, ammutolendo tutto lo stadio. Pozzo abbandonò la panchina e si posizionò dietro la porta avversaria per spingere ulteriormente la squadra, che trovò il pari con Orsi e poi, nell’overtime, trovò la rete decisiva con Schiavio. Che, al momento del gol, svenne per il gran caldo e la fatica con Mezzana e lo stesso Pozzo che lo risvegliarono a suon di schiaffi. In tribuna d’onore Benito Mussolini, seduto a fianco di Jules Rimet, celebrò il successo azzurro.
Due anni dopo arrivò il trionfo olimpico a Berlino con l’Italia che vinse - con un gruppo, ovviamente, completamente diverso rispetto a quelli di due anni prima - al cospetto di Adolf Hitler, mettendo in fila Stati Uniti (1 a 0 con gol di Annibale Frossi), Giappone (8 a 0 con poker di Biagi, tripletta di Frossi e gol di Cappelli), Norvegia (che aveva eliminato la Germania: segnarono Negro e Frossi, nei supplementari) e, infine, l’Austria, piegata per 2 a 1 allo stadio Olimpico di Berlino con la doppietta di Frossi che, due anni dopo, non farà nemmeno parte del gruppo che conquisterà i Mondiali in Francia.
Ecco, per l’appunto, il Campionato del Mondo del 1938, a cui l’Italia arrivò da stragrande favorita, con ammissione diretta alla fase finale in quanto detentrice del trofeo. Pozzo convocò 18 nuovi giocatori rispetto alla precedente edizione: i reduci furono il secondo portiere Masetti, il difensore Monzeglio, il centrocampista Ferrari e Peppino Meazza, che componeva il tandem d’attacco con Silvio Piola.
Gli azzurri diventarono neri, perché il regime fascista aveva imposto l’utilizzo di una divisa “total black” e, alla gara d’esordio a Marsiglia contro la Norvegia, si esibirono nel saluto romano (per ben due volte) prima dell’inizio del match, cosa che fece infuriare i tanti italiani antifascisti ed esuli presenti sulle tribune. Servirono i tempi supplementari per piegare gli scandinavi (rete di Ferraris in apertura, pareggio di Brustad e gol nell’extratime proprio di Piola) negli ottavi. Non si giocò, invece, il match tra Svezia e Austria a causa dell’Anschluss con i migliori giocatori austriaci che furono inglobati nella nazionale tedesca.
Lo stesso Sindelar, capitano del Wunderteam che aveva umiliato i tedeschi nella “partita della riunificazione”, organizzata in pompa magna dall'apparato nazista per celebrare l'annessione della “Marca orientale”, si rifiutò di giocare nella nazionale del Reich e sulla sua morte, avvenuta nel gennaio del '39, non a caso aleggia ancora il mistero.
Nei quarti l’Italia estromise i padroni di casa della Francia (3 a 1 con gol di Colaussi e doppietta di Piola), mentre in semifinale si sbarazzò dell’ambizioso e fortissimo Brasile (che non schierò il giocatore più forte di cui disponeva, l'attaccante Leonidas) con rete decisiva su rigore di Meazza, che dovette battere il penalty tenendo i pantaloncini, visto che pochi minuti ne aveva rotto l’elastico. Dopo la vittoria, Pozzo le provò tutte per convincere le delegazione sudamericana a cedere agli italiani i biglietti aerei già acquistati per Parigi, dove si sarebbe disputato l’ultimo atto, ma non ci fu nulla da fare. In finale arrivò il secondo trionfo con successo sull’Ungheria grazie alle doppiette di Piola e Colaussi con il Ct Azzurro che entrò già nella storia del movimento calcistico azzurro.
I Mondiali nel ’42 non si disputarono e nemmeno nel ’46 e nel Secondo Dopoguerra l’avventura di Pozzo in azzurro durò pochissimo. Il 5 agosto 1948, su pressioni diventate ormai insostenibili da parte della Federcalcio, il tecnico piemontese rassegnò le proprie dimissioni. La spiegazione ufficiale fu che le sue idee calcistiche erano ormai superate con annesse critiche per l’eliminazione al secondo turno delle Olimpiadi di Londra. In realtà i successi degli anni ’30 erano identificati con il periodo fascista e quest'ombra andava eliminata.
“Il Commissario unico era un ufficiale degli alpini e un fascista di regime. Vale a dire uno che apprezzava i treni in orario ma non sopportava gli squadrismi, che rendeva omaggio al monumento degli alpini ma non ai sacrari fascisti”, lo aveva descritto il giornalista Giorgio Bocca. Monarchico e fervente patriota, Pozzo era riuscito con la sua autorevolezza a guidare uno strepitoso strumento propagandistico del regime senza che lo stesso lo fagocitasse completamente. Accusato di collaborazionismo durante la Repubblica sociale, dai suoi archivi emerse invece la collaborazione con il Cln.
Dopo quasi diciannove anni trascorsi sulla panchina più ambita d’Italia, Pozzo venne spostato dietro una scrivania e contribuì alla nascita del Centro Tecnico Federale di Coverciano, la futura “casa” della Nazionale. Nel 1949 venne chiamato a riconoscere i corpi dei giocatori del Grande Torino periti nella Tragedia di Superga e lui, che quei ragazzi li aveva visti crescere e allenati in Nazionale dal 1942 sino al momento del suo addio. Toccò a lui correggere i carabinieri e indicare, uno per uno, di chi erano i corpi degli atleti della più grande squadra italiana di tutti i tempi.
Nessun allenatore italiano può essere paragonato a Pozzo, perché nessuno dopo di lui ha vinto tanto quanto seppe fare lui negli anni ’30. Oggi solamente lo stadio di Biella, la provincia da cui proveniva la sua famiglia, è intitolato alla memoria del Ct più vincente della storia del calcio italiano e dei Mondiali. Negli ultimi anni della sua vita sparì dalla scena pubblica, emarginato ingiustamente da un movimento al quale aveva dato tutta la propria vita.
Oggi di lui restano, per l'appunto, lo stadio di Biella e un piccolo museo a Ponderano. La Federazione, invece, gli ha dedicato solamente uno dei campi del Centro Tecnico Federale di Coverciano. Troppo poco per chi, per un decennio, ha portato la Nazionale Italiana a dominare il calcio.