Dalle Tofane al Pasubio, esplosioni ad alta quota. La guerra di mine e le montagne in frantumi
In questo approfondimento di “Camminando nella Grande Guerra”, rubrica del Dolomiti in collaborazione con il Museo della Guerra di Rovereto, affronteremo alcuni episodi della cosiddetta “guerra di mine”. Sul fronte trentino, infatti, il conflitto fu combattuto anche con il piccone e la gelatina, nel tentativo di scavare la roccia sotto il nemico e di farlo saltare in aria

“Il 1916 segnò il trionfo del barocco in montagna, che acquistò la quarta dimensione: lo sprofondamento. Accadde con la guerra sotterranea: fra tutte le forme del combattere, la più scientifica, la più ingegneristica, la più tecnologica, la più visionaria, la più potente, la più roboante, la più primordiale, la più cupa, la più costosa, la più sproporzionata, la più inutile” (da La guerra verticale. Uomini, animali e macchine sul fronte di montagna 1915-1918 di Diego Leoni)”
TRENTO. Castelletto della Tofana, Dente italiano del Pasubio e Lagazuoi. Ma non solo. La “guerra delle mine” rappresentò sul fronte trentino-tirolese uno dei tanti campi in cui Esercito regio ed Imperial-regio esercito si misurarono, con grande investimento di uomini, mezzi e risorse. Stabilito il fronte, a pochi mesi dalla dichiarazione di guerra italiana all’Austria-Ungheria, i due schieramenti si trovarono infatti impantanati in una guerra di posizione estenuante; una guerra – come scrive lo storico roveretano Diego Leoni nel suo La guerra verticale – “di lavoro, di sistema”, “tentacolare, totale, onnivora, autoreferenziale, barocca, mai combattuta prima e mai più dopo, intreccio di iperboli e paradossi”.
Una guerra, tra le altre cose, che mise in campo tutte le conoscenze e le competenze scientifiche, nel tentativo di sconfiggere il nemico. La guerra di mine, cioè l’utilizzo dei minatori per scavare cunicoli nei sistemi difensivi avversari da riempire d’esplosivo, ne rappresentò un volto. Distruttivo e spettacolare, estremamente impattante sul morale degli uomini coinvolti come del territorio, sconvolto dalle tremende esplosioni. Nondimeno, essa non fu prerogativa della Grande Guerra, né men che meno fu inventata con questo conflitto, il più terribile che l’umanità avesse mai vissuto fino a quel momento.

“Già in epoca romana e medievale si usava scavare sotto le mura nemiche, durante gli assedi, dei cunicoli in cui appiccare grandi fuochi, così da farle crollare – spiega Tiziano Bertè, a lungo collaboratore del Museo della Guerra ed autore di un volume intitolato Guerra di mine sul Monte Zugna “Trincerone” (1915-1918) – questa situazione non poté che cambiare, naturalmente, una volta inventata la polvere da sparo”.
L’anno di svolta in questo settore del fronte trentino-tirolese, per questo tipo di conflitto, fu però il 1916. Il fronte s’era appena stabilizzato ed in primavera l’esercito austro-ungarico scatenava nel Trentino meridionale e sugli altopiani la grande Offensiva di primavera. Lo scopo? Sfondare la linea italiana, scendere nella pianura veneta e chiudere in una sacca le truppe italiane sul fronte carsico (QUI un approfondimento). È in questo contesto che Berté ha ricostruito un episodio, meno noto, della guerra di mine. Scenario: il Monte Zugna.
“L’Offensiva scatenata dagli austro-ungarici viene fermata sul Trincerone – racconta – il tentativo di sfondare la linea italiana e scendere verso Schio, infatti, si ferma contro la resistenza del Regio esercito. Gli austriaci sono stati fermati ed è in questo contesto che dei disertori presentatisi agli italiani in Val di Gresta, nel dicembre del ’16, informano d’aver sentito di piani nemici per far saltare la cime del Monte Zugna”.
“Gli italiani immediatamente si allarmano – continua – hanno già fermato l’avanzata in primavera, resistendo tenacemente sul Trincerone. Il Corpo d’armata viene quindi informato subito di quanto detto dai nemici catturati e provvede a inviare sullo Zugna dei minatori per scavare dei pozzi verticali con al fondo una camera per installare i geofoni. Si tratta di strumenti che rilevano i suoi prodotti da attività di scavo. Come contromisura, i minatori italiani cominciano a loro volta a costruire un sistema di contromine a pochi passi dalle linee austriache. Due, in particolare, caricate rispettivamente con 8 e 12 quintali di gelatina. Una di queste, probabilmente a seguito di un fulmine, detonerà nel 1917, uccidendo con i gas un soldato di guardia”.

I gas, così come le esplosioni e la pioggia di detriti prodotta dagli scoppi, risultavano altrettanto letali. Così avvenne, ad esempio, sulle Tofane, dove sotto gli occhi del re e di Cadorna venne fatta brillare una mina da 35 tonnellate che fece saltare in aria la sella del Castelletto, uccidendo sul colpo 13 austriaci. Nelle ore seguenti, o meglio nei giorni seguenti, attorno al gigantesco cratere prodotto dall’esplosione si sarebbe consumata una accanita battaglia, in cui alla fine ebbero la meglio gli alpini.

Altrettanto celebre, fu la guerra avviata “a suon di mine” sul Pasubio dove, come evidenzia Leoni nel suo libro, “la sproporzione fra investimento e risultato si fece paradosso”. Stabilitisi nell’autunno del ’16 su due rilievi a qualche decina di metri di distanza – passati poi alla storia come “Dente austriaco” e “Dente italiano” – qui i due eserciti si misurarono in un terribile confronto. Fu nel settembre dell’anno successivo che si ebbe la prima tremenda esplosione.

Nella notte del 29, infatti, un devastante scoppio sconvolse la montagna, provocando quello che molti testimoni avrebbero descritto come un vero e proprio terremoto, oltre ad una trentina di vittime e a decine di feriti, asfissiati in molti casi dai gas prodotti dalle esplosioni. Da quel momento, seguirono altre 9 mine, 4 austriache e 5 italiane, fra cui merita d’essere ricordata quella imperiale del 13 marzo ’18. In quel caso, “sotto i piedi” degli italiani vennero collocate 50 tonnellate di esplosivo, con un conseguente bilancio di vittime ben più drammatico.

Da ultima vi fu la mina fatta esplodere dagli austro-ungarici alla base del Piccolo Lagazuoi, sempre nelle Dolomiti orientali. Qui un minuto gruppetto d’alpini aveva resistito asserragliato agli attacchi nemici, procurando loro non pochi fastidi. Nella notte del 22 maggio 1917, una gigantesca esplosione di 30 tonnellate di dinamite scosse dal profondo la montagna, aprendo l’assalto dei reparti austro-ungarici alla vetta. Sotto una pioggia di massi, mentre l’aria era stata resa irrespirabile da una densa nuvola di polvere, l’artiglieria austriaca prese a sparare. La grande frana e le macerie, però, impedivano alla fanteria imperiale di assaltare l’avamposto italiano. E così, dopo una dura resistenza, la battaglia si concluse così con le stesse posizioni di quando era cominciata.
