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Addio a Sebastian Stocker, l'uomo che ha reso grande Terlano e i vini altoatesini
Il "Metodo Stocker" è uno dei più imitati e ha fatto scuola (consiste nel lasciare sui lieviti il mosto/vino per lunghissime, si potrebbe dire eterne fermentazioni) . Lui è stato un vero Patriarca della viticultura altoatesina, l'ha resa grande. Una volta bevendo dei suoi Terlaner non ho potuto far altro che inginocchiarmi

TERLANO. Era un vero Patriarca, un cantiniere (Kellermaister, per dirla nella maniera più corretta) che ha scandito l’evoluzione del vino sudtirolese. Impossibile pensare al successo attuale dell’Alto Adige senza partire dal ruolo di Sebastian Stocker, classe 1929, uomo del vino, assoluto interprete anzitutto del suo paese, Terlano. E dell’omonima cantina. Dove era entrato nei primi anni ’50, rivoluzionando tutto il modo di coltivare uva per fare solo e specialmente vini esclusivi, longevi, praticamente eterni. Doppiamente intriganti perché vini da uve a bacca bianca, sauvignon e pinot bianco in primis. Un impegno che lo ha visto per quasi mezzo secolo dirigere la locale ‘kellereigenossenschaft’, talmente ben impostata che tuttora risente delle intuizioni enologiche di questo mitico cantiniere.
E’ stato lui a vinificare certe selezioni di uve bianche destinate a vini da assaggiare nel tempo, dieci, venti e talvolta anche quaranta anni dopo la vendemmia. Memorabili le sue frasi a commento del nostro stupore di (allora) giovani degustatori, quando sul finire degli anni ’80 entravamo tra botti e cataste di bottiglie per scovare i vini da mettere sulla guida Gambero Rosso/Slow Food. Ci parlava nel suo italiano stentato, ma era orgoglioso di conoscere la parlata dialettale trentina (per i suoi legami con la scuola agraria di San Michele all’Adige) e accettava ogni osservazione. Praticamente tutte – e sempre – rivolte a vini decisamente ‘monumentali’.
Solo un ricordo, dei tanti. Autunno 1995, visita in cantina, tra assaggi di vinificazioni recenti, qualche mosto che ancora ribolle… e poi ( lo faceva spesso) la stappatura di annate incredibilmente d’antan. Bottiglie affusolate (renane) vetro leggerissimo, chiaro, tappi microscopici, quasi sempre impregnati di vino, etichette salvaguardate dall’usura solo perché protette da ‘domopack’ trasparente. Con il millesimo in bella mostra, senza alcuna ostentazione: 1959 – 1966 – 1969.
Confesso, sia io che Francesco Arrigoni, un critico del vino che purtroppo ci ha lasciato prematuramente, ci siamo inginocchiati in adorazione. Proprio così. L’assaggio di quei Terlaner (mix tra uve di chardonnay, pinot e sauvignon. Fino agli anni ’70 non c’era la distinzione tra chardonnay e pinot bianco, ma l’uva veniva semplicemente chiamata ‘borgogna bianca’) era talmente emozionante che se avessimo dovuto dare un voto, un punteggio, la soglia dei 100/centesimi forse non sarebbe bastata.
Stocker ha sempre stupito, senza mai voler apparire. Ma ha stimolato le nuove generazioni di enologi a rilanciare le sue intuizioni enoiche. Un ‘Metodo Stocker’ imitato dai più e che ha fatto scuola. In pratica consiste nel lasciare sui lieviti il mosto/vino per lunghissime, si potrebbe dire eterne fermentazioni. Per fissare ogni elemento qualitativo, aromi, sapidità, eleganza. Doti per vini unici, rari. Lo ha fatto anche quando è andato in pensione, nel suo maso sopra Terlano, ad un tiro di schioppo dalla ‘sua prima cantina’. Maso dove ha sperimentato la produzione di spumante classico. Con il recupero, nella cuvèe a base chardonnay e pinot bianco, pure del sauvignon, il vitigno del suo cuore.
La varietà che ha fatto ‘eterni’ i vini di Terlano griffati Stocker.