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La storia si ripete, a Fortezza era stato sperimentato il congelamento di azoto liquido, oggi la stessa tecnica serve per il Tunnel del Brennero
Questa tecnica di consolidamento del suolo, che sta rendendo possibile la realizzazione in sicurezza dello scavo del tunnel del Brennero è stata sperimentata e perfezionata per la prima volta in Italia proprio a Fortezza, sulle rive del fiume Isarco, nel 1971

BOLZANO. Fortezza 2017: il 'Sottoattraversamento Isarco' è in piena fase realizzativa. Il passaggio del tunnel di base del Brennero poco sotto la superficie del fiume ha reso necessario l’utilizzo di tecniche avanzate di congelamento del terreno. Grazie all'impiego di azoto liquido il terreno attorno al futuro scavo viene consolidato per prevenire eventuali e disastrose infiltrazioni nonché per preservare le molte falde acquifere presenti. L’azoto allo stato liquido, -196°C, viene fatto scorrere a ciclo continuo e reso disponibile alle bassissime temperature desiderate grazie alla costruzione in loco di una centrale adibita appositamente a questo scopo.
La storia ogni tanto riserva sorprese e coincidenze: proprio questa tecnica di consolidamento del suolo, che sta rendendo possibile la realizzazione in sicurezza dello scavo del tunnel del Brennero è stata sperimentata e perfezionata perla prima volta in Italia proprio qui nello stesso luogo, a Fortezza, sulle rive del fiume Isarco, dove lo sbarramento artificiale dell’Enel provoca un rallentamento delle acque e il deposito di materiale di trasporto del fiume rende il terreno granuloso e instabile.
Siamo dunque a Fortezza nel 1971, ben 46 anni fa. Alla Rodio viene dato dalla ditta appaltatrice di quella parte di viadotto del Brennero, la Lino e Ito del Favero S.p.A., l’arduo compito di consolidare il terreno in vista della posa dei piloni 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10. La Rodio consegna infine nelle mani dell’Ingegnere Achille Balossi Restelli la progettazione e l’assistenza per quella critica fase del consolidamento che rendeva assolutamente necessario l’utilizzo di azoto liquido.
In Italia non era mai stata sperimentata questa tecnica su opere di tale portata e si trattava dunque di una sfida impegnativa (Alcune fonti, incerte, parlano dell’utilizzo di una tecnica simile, ma molto più limitata, nella realizzazione delle fondamenta dell’Ara Pacis a Roma nel 1937, mentre negli Stati Uniti l’azoto liquido era utilizzato a tali scopi, soprattutto in ambito minerario, sin dal secolo precedente e poi massicciamente dopo il 1950).
Dopo un primo studio del terreno viene decretata dai progettisti l’impossibilità di utilizzare l’iniezione di calcestruzzo e resine impermeabilizzanti negli strati più umidi e instabili del terreno perché, oltre ad essere economicamente estremamente costose, l’iniezione non dava alcuna garanzia se utilizzata in strati geologici così instabili.
Il deposito limoso del fiume Isarco in quel tratto di rallentamento era infatti troppo instabile e le miscele a base di cemento-bentonite, gel di silice e resine fenoliche tendevano a disperdersi prima del consolidamento.
Giunti a quindi a questo binario morto non restava alcuna opzione se non impiegare la tecnica di congelamento del terreno attraverso azoto liquido. La soluzione infine adottata fu allora quella di lavorare nella realizzazione e messa in sicurezza del terreno attorno ai futuri piloni impiegando alternativamente sonde per l’iniezione di cemento bentonite, da utilizzare negli strati più solidi del terreno, e circuiti di congelamento attraversati da un ciclo di azoto liquido per stabilizzare gli strati di terreno più instabili e procedere solo in seguito all’iniezione delle resine.
Per ogni singolo pilone, su una base artificiale di lavoro costruita con materiale di riporto, furono dunque installate tre corone concentriche attraverso successivi carotaggi: due destinate alle sonde per l’iniezione di resine e cementi e una corona centrale che avrebbe poi dovuto ospitare la rete di tubi predisposta per essere attraversata dall’azoto liquido.
La temperatura del terreno durante l’intero ciclo doveva rimanere inferiore ai -10°C. Dopo alcune sperimentazioni concluse con successo, la sfida più impegnativa fu infine quella di garantire un ingente e costante apporto di azoto liquido con il quale 'foraggiare' durante i lavori di scavo le profonde tubature refrigeranti. (Nelle schede lo schema delle varie fasi di consolidamento).
Perché questa tecnica sia economicamente vantaggiosa una grande quantità di azoto liquido deve appunto essere pompata a intervalli regolari nelle tubature per mantenere intatto il muro di ghiaccio. Se il flusso fosse continuo, ma di minore intensità si avrebbe uno spreco esoso di liquido e la formazione del muro di ghiaccio sarebbe lenta e incompleta.
Gli enormi serbatoi di azoto liquido grazie all’ausilio di un complesso sistema logistico venivano trasportati in loco e scaricati ogni mezz’ora nelle tubature garantendo il funzionamento del sistema. Grazie all’impiego di questa tecnica è stato quindi possibile realizzare i piloni 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8 del viadotto con costi realizzativi economicamente sostenibili e garantendo la sicurezza dell’opera.
Riguardando oggi le foto dell’epoca, sono ormai passati quasi 50 anni, si può notare un interessante anacronismo tra gli abiti dei tecnici e degli operai, le passatoie in legno, le scale di corda, i picconi, e gli strumenti utilizzati per il congelamento del terreno che fanno sembrare il cantiere più simile ad una ipotetica colonia lunare o un immaginario insediamento marziano.
Una grande opera pionieristica questa che ha permesso nel 1971 di realizzare uno dei passaggi più impegnativi del grande viadotto del Brennero e che permetterà di scavare in sicurezza, oggi, grazie al suo contributo innovativo, uno dei tratti più complicati di quello che sarà il collegamento sotterraneo più lungo al mondo, il Tunnel di Base del Brennero.