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Un villaggio spazzato via: la strage di Domenikon e i crimini di guerra italiani nella Seconda guerra mondiale
In questa nuova puntata di “Cos’era il fascismo” facciamo un salto nella Seconda guerra mondiale, dove non mancarono affatto gli episodi criminali di cui si resero protagonisti i soldati dell’esercito regio. Fra questi l’incendio del villaggio di Domenikon, in Grecia, e l’uccisione di tutti i suoi abitanti

“Punto VI: alle offese dell’avversario si deve reagire prontamente e nella forma più decisa e massiccia possibile. Il trattamento da fare ai partigiani non deve essere sintetizzato dalla formula: ‘dente per dente’ ma bensì da quella ‘testa per dente’” (dalla circolare 3C del generale Mario Roatta, comandante dell’esercito italiano nella provincia di Lubiana, 1 marzo 1942)
TRENTO. “Una lezione salutare”. Fu questo il commento, scritto in un rapporto dal generale della XXVI divisione fanteria Pinerolo Cesare Benelli, ai fatti avvenuti a Domenikon, in Tessaglia, fra il 16 e il 17 febbraio 1943. Un attacco partigiano, in cui erano rimaste uccise nove camicie nere, aveva appena prodotto una feroce rappresaglia. Un interno villaggio, nei pressi del luogo dello scontro, era stato infatti travolto dalla furia degli italiani, lasciando sul terreno oltre 150 civili.
Da parte sua, il generale Benelli si mostrò ligio ai comandi. In una circolare emessa ancora all’inizio del mese, il 3 febbraio, il generale d’armata delle forze italiane in Grecia Carlo Geloso aveva introdotto un principio cardine attorno a cui far gravitare l’azione delle truppe d’occupazione. In caso di attacco partigiano, a vigere sarebbe stata la responsabilità collettiva. Tale misura, con tutte le sue automatiche conseguenze, ricalcava quanto stabilito dalla circolare 3C del generale Mario Roatta, ex capo di Stato maggiore, comandante della provincia di Lubiana e poi guida delle forze italiane d’occupazione in Jugoslavia.
La formula “testa per dente” fu quindi applicata anche in Grecia e la strage di Domenikon, sotto questo profilo, non fu che l’inaugurazione di una fase d’estrema crudezza per il territorio ellenico sottoposto al dominio italiano. Dopo le grandi difficoltà dimostrate dal Regio esercito durante l’aggressione del 1940 (QUI l’articolo), decisivo era stato l’intervento dell’alleato tedesco. Nella gestione del territorio e nella lotta all’ampio movimento di Resistenza sorto nel Paese, tuttavia, gli italiani non si dimostrarono affatto più benevoli dei tedeschi.
Ciò che accadde al piccolo villaggio di Domenikon, situato nella Grecia centrale, fu il preludio di quanto sarebbe toccato al Paese ellenico nei mesi a venire. Il 16 febbraio, poco dopo l’attacco partigiano alle milizie fasciste, Benelli ordinava la ritorsione: circondato da centinaia di soldati, Domenikon veniva saccheggiato, le case date alle fiamme, la popolazione rastrellata. In cielo, nondimeno, comparivano gli aerei italiani, che lasciarono cadere sul paese diverse bombe. Tutti gli uomini fra i 14 e gli 80 anni vennero a quel punto caricati sui furgoni. La supposta destinazione? Larissa, capoluogo della Tessaglia. La reale destinazione? La fucilazione strada facendo.
È la notte fra il 16 e il 17 febbraio, quando avviene l’uccisione di un centinaio di uomini del villaggio. Ma non è che l’inizio. La circolare di Geloso portò a una serie di episodi analoghi a quello di Domenikon. Secondo gli studi della storica Lidia Santarelli, nella primavera-estate del ’43 sono circa 200 i villaggi distrutti nel dominio italiano in Grecia. Alle centinaia di vittime prodotte dalla ferocia dei soldati del Regio esercito e delle truppe ausiliarie in camicia nera si sommarono quelle determinate dalla carestia, che secondo una stima del governo ellenico arrivarono a raggiungere le oltre 200mila persone. All’origine del disastro alimentare, v’erano state le requisizioni, i saccheggi, i costi di un’occupazione condotta con migliaia di uomini e metodi barbari.
Venuta a galla grazie al lavoro di storici e documentaristi (vedi La guerra sporca di Mussolini di Giovanni Donfrancesco, andata in onda in Italia a diversi anni dalla sua uscita), la vicenda di Domenikon fu – a differenza di molti altri episodi simili – riconosciuta dal governo di Roma. È il 16 febbraio del 2009, infatti, quando l’ambasciatore italiano ad Atene Gianpaolo Scarante partecipa alla commemorazione delle vittime, portando le scuse dell’Italia alla Grecia e ai parenti degli uccisi. Un gesto nobile ma isolato, se pensiamo alla nebbia che circonda i crimini italiani della Seconda guerra mondiale.
Il 19 febbraio di 6 anni prima rispetto alla strage greca, al centro della furia italiana vi fu la popolazione civile di Addis Abeba, capitale della nuova colonia dell’Africa Orientale. Il fallito attentato al viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani produsse una rappresaglia parossistica, in cui si stima che persero la vita 19mila etiopi. A partecipare ai massacri, durati giorni e giorni, ci furono anche semplici coloni (QUI e QUI e QUI due approfondimenti).
Grecia, Jugoslavia, Etiopia, Libia, Albania, Unione Sovietica. L’invasione italiana, in ognuno di questi luoghi, portò morte e brutalità, su cui ancora molto c’è da studiare. Ricordati in Italia come “più umani e più gentili” dei loro alleati tedeschi, i soldati italiani lasciarono invece tutt’altre memorie nei luoghi d’occupazione. In Jugoslavia, ad esempio, gli italiani ricevettero il soprannome di “taljanski palikuće”, “italiani bruciatetti”, vista l’abitudine di ricorrere al lanciafiamme per sfollare le persone nei villaggi.
A fine guerra, i Paesi occupati dagli italiani richiesero l’estradizione di ben 750 criminali di guerra. Nessuno di loro, una volta cominciata la Guerra fredda, prese la strada dei Paesi in cui si macchiò di efferati crimini contro la popolazione locale.