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L'altra faccia di piazza Dante, la 'normalità' di chi gioca a carte, tra un bicchiere di vino e una canna. "E' una città nella città"
Il luogo simbolo del 'problema' immigrazione raccontato attraverso le testimonianze di chi lo frequenta: "Ci sono i giovani, i vecchi, quello matto, quello saggio. Ci sono zone diverse, vari gruppi, a volte litigano, ma è così da sempre”

TRENTO. “Piazza Dante è come una città nella città – ci spiega un uomo marocchino, in Italia da più di 20 anni – ci sono i quartieri, ognuno abitato da 'razze' diverse”. Da una parte i “tossici”, dall'altra le “signore badanti” che vengono al parco durante il giorno libero, i ragazzi del Nord Africa, i senzatetto storici, italiani spesso anziani, persone seguite dai servizi sociali, senza lavoro, con passati di alcolismo e disagio, poi quelli che al parco chiamano “i neri”, i centrafricani, gli ultimi arrivati nella babele di lingue che popola i giardini chiusi tra la stazione e i palazzi del potere, il luogo simbolo del 'problema' immigrazione in Trentino.
Un gruppetto di abitanti della piazza è però trasversale, si incontrano come fossero vicini di casa su una delle panchine a nord, vicino alla ciclabile. Attorno l'odore di piscio di chi usa i tronchi degli alberi come vespasiani, che col caldo impregna l'aria. Un odore che dopo poco perde intensità e si mescola con i mille altri, quelli del sudore, del vino, dell'asfalto che brucia. “Dove vado se mi scappa – dice uno di loro – vado al Grand Hotel? Vai a vedere i cessi pubblici giù in fondo – dice provocatorio – sono sempre chiusi, guasti. E io non ci entro, l'è 'na trappola che te resti serà dentro”.
Su quella panchina siedono in due, un senzatetto italiano che incarna la caricatura del barbone e un uomo dell'est che parla poco, che non risponde affatto alle domande. Attorno girano un senegalese vestito di tutto punto che parla l'italiano meglio di tanti italiani e quel marocchino che poco prima ci ha spiegato la geografia culturale del parco. “Noi siamo quelli vecchi – dice il marocchino – ormai ci conosciamo da anni, si passa il tempo, quattro chiacchiere”. E qualche bicchiere e qualche canna. Uno di loro, il senegalese vestito bene, sta rollandone una, “ma io non fumo, mai fumato in vita mia – dice il senzatetto con la barba lunga – mi fa schifo”.
“Dai meti zo quela carta – dice poi sgridando il suo compagno di gioco – no sta perder temp”. Ha i modi spicci Adolf, con i sui 75 anni si può permettere di essere un po' rude, fa parte del personaggio. “E' tedesco – dice uno dei presenti – un crucco”. Adolf sorride poi si fa serio per finta e dice: “Poderia encazarme, bruto mona”. Mamma tedesca, papà tedesco, è nato in val Venosta. Chiediamo come mai sia finito a Trento, perché sia lì in piazza Dante. “Per zugar a carte”. Parla poco ma è buono e tutti gli vogliono bene . Un ragazzo magrebino arriva in bici e gli porta un sacchetto con dentro un pezzo di pane e un cartone di vino, non ringrazia nemmeno, ma con lo sguardo gli sorride.
“La piazza – ribadisce il marocchino – è proprio una città. Ha le sue regole, i suoi personaggi. Ci sono i giovani, i vecchi, quello matto, quello saggio. Ci sono zone diverse, vari gruppi, a volte litigano, ma è così da sempre”. La sua lettura è condivisa da tutti, mentre parla altri lo aiutano a spiegare. “Là in fondo ci sono le 'signore badanti' – spiega il senegalese – mangiano sulle panchine, si portano i cibi fatti in casa e stanno lì a parlare con le loro connazionali. Poi ci sono anche quelli dell'Est, i rumeni, che non stanno sulle panchine ma si buttano in terra sull'erba”.
Tra le zone ci sono da pochi anni anche quelli che chiamano “neri”, i ragazzi alti e torniti dell'Africa centrale. “Quelli adesso sono diventati un problema – dice il marocchino – sono loro che causano i casini”. Adolf non li sopporta, impreca contro di loro: “Che i vaga for dai coioni”. Il marocchino continua la sua spiegazione, guarda un attimo Adolf poi continua: “Sono arrivati per ultimi ed è ovvio che abbiamo portato problemi, come succede sempre per quelli che arrivano dopo gli altri.
"Una volta – dice sorridendo un poco – eravamo noi marocchini quelli che portavano casino, quelli che tutti odiavano. Ora invece siamo qui con gli italiani, andiamo d'accordo, perché non siamo più gli ultimi arrivati, sono loro. Prima di noi – continua – c'erano gli albanesi che erano arrivati in Italia negli anni '90. Ci odiavano, ci trattavano male. Insomma – spiega – adesso tocca a loro, a quelli 'neri' che stanno là in fondo”, e indica i pressi della palazzina Liberty dove sotto agli alberi stazionano sulle panchine i ragazzi africani, lontani da tutti, senza rapporti tra gli altri gruppi. “Gridano sempre – dice Adolf – e quando parlano no se capis gnent”.
Più volte la nostra attenzione è stata infatti attirata dalle urla, da schiamazzi concitati che partono da gruppi di neri che sembrano litigare. “No, tranquilli – ci assicurano – non succede niente, loro parlano e urlano insieme, ma non stanno litigando. Loro fanno così”. Ma quando si arrabbiano menano, come è successo qualche settimana fa, quando a scontrarsi sono stati gruppi di magrebini e centrafricani: “Succede – ci spiegano – succede per il controllo del mercato dello spaccio, per la droga. E poi fa caldo – dice sorridendo e facendo ruotare l'indice vicino alle tempie – diventano tutti più nervosi”.