BLOG. Sfide globali per il sistema economico trentino. Spunti per una politica economica territoriale. Parte 2


Docenti di studi internazionali dell'Università di Trento
di Enrico Zaninotto, professore di economia e gestione delle imprese, Dipartimento di economia e management, Università di Trento e di Andrea Fracasso, professore di politica economica, scuola di studi internazionali e Dipartimento di economia e management, Università di Trento.
Nella prima parte di questo contributo abbiamo offerto una riflessione sulle difficoltà che l’economia italiana e quella provinciale fronteggiano a seguito dei cambiamenti profondi occorsi con la più recente fase del processo di globalizzazione (Qui prima parte).
L’economia italiana, abbiamo argomentato, si trova ad affrontare i tipici problemi di un paese avanzato posto alla frontiera tecnologica (sia pure di settori tradizionali), insieme a quelli di un paese in via di sviluppo, che deve trovare una collocazione all’interno delle catene globali del valore a maggior crescita, ricercando e sfruttando i propri vantaggi competitivi.
Abbiamo inoltre osservato la difficoltà per le classi politiche a sciogliere la sempre presente tensione tra preservare l’ordine tra i cambiamenti e preservare i cambiamenti nell’ordine.
In questa seconda parte ci focalizzeremo sulle criticità su cui occorre intervenire e offriremo, senza presunzione di completezza, alcuni spunti e proposte per rispondere alla doppia trasformazione dell’economia regionale.
Le criticità su cui intervenire
Per impostare una politica economica regionale che si proponga di superare il doppio handicap che sta alle radici del basso sentiero di crescita dell’economia regionale, è necessario agire su due fronti.
Da un lato, assumere il punto di vista delle economie sviluppate, nelle quali il tema principale è di trattenere nel territorio un insieme di produzioni e servizi funzionali alla globalizzazione della catena del valore.
Dall’altro lato, occorre rivestire i panni del paese in via di sviluppo, in cui si pone il problema di agganciare, con produzioni e servizi basati sui vantaggi comparati, nuove filiere produttive ad alta crescita.
Il primo asse delle politiche per la crescita si collega all’idea di rafforzare gli elementi territoriali che creano un collante e un elemento di attrazione per le attività produttive ad alto valore aggiunto. Esso richiama, a sua volta, diverse condizioni.
1. I fattori produttivi. Spesso si ripete che il fattore produttivo principale per mettere i paesi sviluppati al riparo dalla concorrenza dei paesi emergenti sia l’investimento in conoscenza. Tuttavia, di fronte alle caratteristiche della globalizzazione attuale investire in questo fattore può non bastare.
La scienza è altamente trasferibile e produce spillover che vanno al di là dei confini regionali e nazionali. La globalizzazione recente è legata alla possibilità di muovere non solo i beni, ma anche le idee attraverso le reti di informazione.
Resta invece la difficoltà (crescente) di muovere le persone. Per questo motivo è necessario intervenire per favorire lo sviluppo di conoscenza incorporata nel fattore umano e che abbisogna, per essere applicata, di strette relazioni personali, e in particolare di lavoro ad elevata qualificazione (high skilled labor) che offre i vantaggi della bassa mobilità e alte ricadute.
Se le persone sono relativamente meno mobili e le imprese trovano nel fattore umano (sia interno, sia di contesto) la fonte del proprio vantaggio competitivo, allora le persone possono diventare un forte collante che lega le attività produttive ai territori.
2. I fattori di attrazione. Lo sviluppo di lavoro ad alta qualificazione può essere promosso, ma deve essere sostenuto da un miglioramento dell’attrattività di una economia (e una società locale per lavoratori di quel tipo).
Migliorare l’attrattività è necessario sia per attirare nuovi lavoratori qualificati, sia per ritenere i lavoratori ad alta qualificazione prodotti internamente. Due sono le condizioni richiamate per aumentare l’attrattività di un territorio.
La prima è data dalla disponibilità di un elevato capitale sociale: l’interazione tra le persone, necessaria per la realizzazione di produzioni ad alta intensità di lavoro qualificato, dipende dalla fiducia e dalla affidabilità del tessuto sociale di un territorio. Nel caso del Trentino, questa condizione è certamente disponibile.
Il secondo fattore è dato dalla presenza di un contesto urbano, nel quale siano accessibili molte competenze complementari e servizi integrati avanzati, oltre che una pubblica amministrazione efficiente. La forza attrattiva delle grandi aree urbane è nota: esse alimentano spillover ed economie di varietà.
L’assenza di un importante polo urbano di riferimento è indubbiamente uno dei principali handicap che deve affrontare l’economia trentina: una delle questioni è pertanto se si possano immaginare per le aree periferiche modelli di attrazione capaci di sostituire, almeno in parte, i grandi vantaggi localizzativi delle aree metropolitane.
Il secondo asse di intervento parte dalla constatazione che l’economia regionale (e più in generale quella del Nord Est) si è costruita attorno a settori tradizionali a bassa crescita. La ristrutturazione di quei cicli produttivi, per quanto importante, non basta da sola a sostenere uno sviluppo duraturo.
Con la crisi economica già è avvenuto uno spostamento delle specializzazioni produttive della regione. Il movimento spontaneo dell’iniziativa economica tuttavia non è sufficiente: esso va sostenuto e incoraggiato tenendo conto che, come nel caso dei paesi in via di sviluppo, la valorizzazione di vantaggi comparati non richiede la costruzione dell’intero ciclo produttivo, ma solo delle fasi produttive in cui questi possono essere spesi, purché tali fasi siano integrate in un ciclo produttivo globale.
Da un certo punto di vista, la logica distrettuale tradizionale, fondata sull’integrazione territoriale di imprese specializzate della stessa filiera e incentrata su competenze manifatturiere va rivista a favore della promozione di iniziative imprenditoriali capaci di collocarsi in reti mondiali di produzione.
Tanto la realizzazione di politiche “da paese sviluppato”, quanto l'implementazione di politiche da “paese in via di sviluppo”, debbono confrontarsi con il problema degli squilibri generati da una profonda ristrutturazione dell’economia territoriale che mette a rischio lavori, professioni e imprese. Per trovare il consenso per costruire una economia che esca dalla lunga stagnazione e per non farne pagare il prezzo ai più deboli è necessario che la trasformazione sia accompagnata da azioni decise a salvaguardia del lavoro e non solo di reti di protezione sociale (senza dubbio necessarie in particolari casi e rispetto alle quali il Trentino è indubbiamente all’avanguardia).
L’attenzione al lavoro è fondamentale sia perché il costo di un sistema di welfare a protezione dei lavoratori di molte attività sottoposte alla concorrenza internazionale sarebbe altissimo, sia perché una semplice rete di protezione sociale, realizzata attraverso politiche di garanzia del reddito, non sarebbe sufficiente ad assicurare la partecipazione sociale di persone il cui reddito potrebbe sì essere garantito, ma che finirebbero per essere escluse dai processi di socializzazione che si realizzano nel lavoro.
Si rischierebbe in quel caso di alimentare, oltre che disagi individuali, vaste fasce di opposizione a processi di cambiamento accelerati. L’accesso al lavoro deve essere dunque considerato come una condizione fondamentale e irrinunciabile per la realizzazione di politiche economiche progressiste.
Nel gestire la trasformazione, il Trentino, va detto, può contare su alcuni vantaggi rispetto ad altre regioni, tra cui una macchina amministrativa capace, un uso consapevole del territorio e delle risorse, un tessuto sociale ricco e inclusivo, un sistema scolastico e di ricerca avanzato, un insieme di politiche innovative in campo sociale e produttivo, un buon sistema di relazioni industriali, ecc..
Tuttavia, il Trentino soffre anche alcuni problemi peculiari, quali la dimensione limitata, la conformazione eterogenea del territorio, l’ invecchiamento della popolazione, l’assenza di un centro urbano di grandi dimensioni, la dipendenza del settore privato dal settore pubblico, la presenza di forme rivendicative spesso di carattere corporativo, un limitato dinamismo imprenditoriale, una specializzazione produttiva ancora tradizionale, ecc..
Tre alleanze
Un piano di ampia portata capace di rispondere alla doppia trasformazione dell’economia non può essere lasciato unicamente alle azioni della pubblica amministrazione. Esso deve viceversa essere fondato su un’ampia partecipazione della molteplicità di soggetti che agiscono nel territorio: lavoratori, imprese e pubblica amministrazione. La dimensione territoriale è fondamentale perché costituisce il livello al quale possono essere gestite le relazioni e osservati i frutti dell’azione.
L’idea che qui si abbozza è che si possano definire alcune alleanze territoriali di alto profilo che permettano di ripartire i costi del cambiamento, in cambio di una sua accelerazione.
La proposta di una alleanza tra le forze civili e quelle politiche che si candidano a guidare il processo può da un lato permettere di recuperare e far convergere le energie necessarie a far ripartire la crescita, dall’altro a far uscire la proposta politica da un approccio di “cattura” di domande di rappresentanza legittime ma spesso contraddittorie, nella contemporanea richiesta di rottura e di ordine e continuità con il passato.
Le alleanze che si propongono rispondono ai diversi aspetti critici della crescita.
Alleanza per il lavoro: il territorio deve essere in grado di assicurare il lavoro a tutti quelli che vogliono lavorare. Un economista spesso evocato nel dibattito sulla crisi finanziaria, Hyman Minsky, evocò l’idea dello Stato come “employer of last resort”, un programma pubblico di garanzia del lavoro per attenuare le fasi del ciclo.
Nella sua forma originaria un tale programma è difficilmente riproponibile. Nondimeno è possibile pensare ad una forma di ”employement of last resort” agevolata da incentivi pubblici, ma realizzata con un impegno delle imprese e dei lavoratori occupati all’interno di un accordo territoriale diretto alla valorizzazione di tutte le risorse potenziali di lavoro.
L’occupazione continuativa, anche attraverso sequenze di contratti temporanei, è la condizione per mantenere i lavoratori nel lavoro avviando processi di riqualificazione e di formazione per chi richiede un primo impiego.
Un sistema assicurativo a garanzia della piena occupazione creato congiuntamente da imprese, sindacati e pubblica amministrazione, e che si avvalga anche di strumenti contrattuali territoriali che comprendano riduzioni temporanee del tempo di lavoro, patti intergenerazionali, job sharing, progetti di formazione-lavoro, interventi di razionalizzazione dei servizi alla persona, può non solo alleviare il costo individuale e sociale del sostegno ai non occupati, ma anche rendere più agevole la ricollocazione del lavoro tra attività produttive in declino ed emergenti, evitando di disperdere competenze e risorse lavorative.
Questo non può interessare solo i lavori dipendenti nella manifattura ma anche i lavoratori autonomi e quelli impegnati nei settori dei servizi, specie avanzati e a maggior rischio.
Alleanza per la conoscenza: l’investimento in conoscenza, sia in termini di miglioramento delle capacità di partecipare all’avanzamento scientifico, sia in termini di estensione dell’accesso delle persone alla frontiera della conoscenza, è fondamentale per il territorio.
Ma la questione delicata è come fare sì che il territorio si avvantaggi della conoscenza generata. Per questo è necessario che questa sia in qualche misura incorporata in fattori poco mobili e questo può avvenire se l’impiego di conoscenza richiede reti fitte di relazioni tra persone. In assenza di fattori localizzativi specifici, il capitale di conoscenza risulta facilmente mobile, sia perché è mobile il prodotto della ricerca scientifica, sia perché i lavoratori della conoscenza sono facilmente richiamati da altri luoghi che offrono maggiori opportunità.
Per rispondere a questo problema che affligge le regioni periferiche, ancorché dotate di importanti poli di conoscenza, è necessario investire per la concentrazione, attorno a quei poli, di un insieme di competenze complementari che possano offrire opportunità di valorizzazione del capitale di conoscenza, e siano tali da alimentare un fattore localizzativo specifico.
Si può pensare a politiche per lo sviluppo della formazione professionale avanzata su alcuni temi congruenti con quelli dei poli di conoscenza, e all’attrazione di imprese manifatturiere e fornitrici di servizi avanzati alla manifattura che possano avvantaggiarsi delle competenze già presenti e rafforzarle, portandone di nuove.
Il modello dei “centri di competenza” previsto dal piano Industria 4.0 può essere da guida ed esempio per lo sviluppo del modello, a partire ovviamente da quanto già esiste. A complemento di ciò, è importante offrire al sistema una rete di connessioni fisiche e di infrastrutture di comunicazione che riducano il costo della marginalità geografica rispetto ai poli urbani di riferimento.
La politica di attrazione delle imprese può essere il risultato, ancora una volta, di una alleanza con la pubblica amministrazione, basata non tanto su incentivi, bensì sulla negoziazione dell’accesso a competenze, servizi, reti ed efficienza della pubblica amministrazione.
Un tema delicato, a questo proposito, è dato dalle modalità di scelta degli assi di agglomerazione e storicamente si sono avute diverse posizioni in materia. La scelta di nuovi settori e nuove filiere di specializzazione si è scontrata con la difficoltà della pubblica amministrazione di scegliere direzioni di investimento promettenti con maggiore perspicacia di quanto non avrebbero potuto fare spontaneamente gli imprenditori.
La scelta di direzioni di agglomerazione basate sull’evidenza di potenziali di specializzazione già presenti (come ad esempio le “smart specialization”) si è dimostrata altrettanto problematica, presentando il rischio della conservazione e della cattura dell’azione pubblica da parte di settori in difficoltà.
Al polo opposto stanno modelli di intervento che offrono condizioni generiche di attrazione di imprese hi-tech, senza alcun tentativo di polarizzare le scelte: anche se singoli casi di successo esistono, non è facile per questa via promuovere fattori agglomerativi di sistema.
Una strada diversa è allora quella di tentare di sviluppare agglomerazione a partire dai poli più avanzati di sviluppo della conoscenza che costituiscono il nucleo essenziale e il prerequisito delle politiche per la ritenzione e localizzazione nel territorio delle competenze e del radicamento del capitale di conoscenza in un sistema di valorizzazione ad alta intensità di relazione.
Tentare questa via può offrire una nuova prospettiva, ancorché fortemente dipendente dalla possibilità di costituire una solida alleanza con Università ed enti di ricerca per lo sviluppo di particolari aree scientifiche. Alcune condizioni preliminari, come Hit, già esistono e tentativi, come il progetto per la Meccatronica o il nodo Eit, sono già in corso.
Su quella base si può pensare di individuare alcune nuove aree di competenza scientifica capaci di costituire poli attrattivi di attività economiche interessate a insediarsi laddove si possano trovare importanti risorse di conoscenza a portata di mano.
Su questa base, l’alleanza può essere estesa ad enti di formazione, alle imprese interessate alla localizzazione nella regione, ai privati che possono partecipare alla costruzione della rete di infrastrutture, e alla stessa pubblica amministrazione che deve mettersi nelle condizioni per offrire servizi pubblici avanzati e di alto livello.
Se la conoscenza viaggia sulle gambe delle persone, vanno anche fatti ulteriori progressi in termini di attrattività dei centri urbani e produttivi maggiori. Il corollario di questo sforzo, per garantire l’ordine, è il rafforzamento delle aree più periferiche che, attraverso un maggior collegamento al centro o attraverso la specializzazione in attività non industriali ad alto valore aggiunto o attraverso forme dirette di compensazione economica, debbono poter beneficiare degli effetti che derivano dalla concentrazione delle attività avanzate nelle aree urbane più grandi. Questo punto si collega alla terza e ultima alleanza.
Alleanza per l’ambiente: la qualità ambientale, in questo contesto, diventa una risorsa preziosa. L’ambito di valorizzazione dell’ambiente si estende dal turismo (che spesso lo usa come risorsa non esauribile) all’insieme dei settori economici per i quali la qualità ambientale è condizione dell’attrazione e della permanenza nel territorio di risorse umane qualificate.
Per questo, il mantenimento della qualità ambientale, il recupero di aree a bassa qualità, la dotazione di servizi elevati anche in territori periferici, ma potenzialmente interessanti per localizzazioni residenziali e produttive, è di fondamentale importanza.
Come trovare i modi di una possibile alleanza tra pubblico e privato per il mantenimento o la ricostruzione di un ambiente ad alta vivibilità e lo sviluppo di una economia non urbana ad alta integrazione, costituisce un altro fronte su cui la politica è chiamata per farsi promotrice della convergenza di una varietà di soggetti che accettano il rischio e l’impegno economico di partecipare a tali progetti e in cui la pubblica amministrazione può offrire le condizioni per attirare “capitale paziente”, in grado di investire in progetti di lungo e lunghissimo periodo, come piani di recupero delle aree degradate di fondo valle o sviluppo di sistemi di trasporto interno a basso impatto ambientale.
Le tre “alleanze” qui appena abbozzate rappresentano esempi di un modello di azione in cui la politica cerca di sostenere e indirizzare progettualità senza pretendere di sostituirsi all’azione delle altre componenti sociali, o semplicemente di rispondere alle istanze della particolare coalizione che la sostiene elettoralmente. Esse hanno anche il senso di richiamare alla responsabilità: il sostegno elettorale non dipende dall’adesione a un programma che risponde a particolari interessi, ma dal farsi carico di una responsabilità a realizzare un progetto di società rispetto al quale le forze sociali ed economiche che vi aderiscono sono capaci di concorrere e anche di mettere in secondo piano interessi specifici e di breve periodo.
Le riflessioni, le proposte e le indicazioni generali contenute in questo articolo in due parti non hanno la pretesa di esaustività. Piuttosto vogliono essere un contributo al dibattito che deve accompagnare un momento importante come le prossime elezioni provinciali.
Non debbono quindi essere lette come né risposta alle politiche delle amministrazioni passate e presenti, né come reazione alle prime proposte delle forze che si propongono come alternative.
Proprio per questa ragione, invece che elaborare un’analisi del successo e dei limiti delle strategie già intraprese, abbiamo scelto di far discendere le nostre riflessioni dall’analisi economica dei processi globali in corso da alcuni decenni.
Il lettore potrà quindi trovare politiche in essere che già vanno nella direzione suggerita ma anche individuare misure che necessitano di revisione.
Quello che ci preme suggerire è l’esigenza che si formuli un piano informato e partecipato da una molteplicità di soggetti che agiscono nel territorio e che debbono contribuire a definire un progetto ambizioso di medio termine per il rafforzamento di una società inclusiva e dinamica.
Le elezioni costituiscono una occasione importante per approfondire questi temi e chiarire le forze in gioco attraverso un dialogo pubblico ampiamente partecipato.
La speranza è che le elezioni non diventino invece il contesto per rivendicazioni corporative, promesse miopi e ricette tanto sbrigative quando controproducenti. Il dibattito aperto e informato è lo strumento per evitare che questo accada.