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Pietro Verri e le osservazioni sulla tortura: ma quante scelleratezze sono state perpetrate in nome del presunto interesse pubblico?

Breviario di politica mite/La storia umana è ricolma di vessazioni illiberali, che continuano anche all’alba del terzo millennio a martoriare il pianeta, non solo presso quelle nazioni che giacciono sotto il tallone di regimi dispotici ma anche nei paesi considerati più civili quando conservano retaggi inquisitori nelle pratiche giudiziarie

Pubblicato il - 04 settembre 2021 - 20:03

Etiam innocentes cogit mentiri: il dolore sforza non solo i delinquenti, ma anche gli innocenti, a mentire. Queste parole di Seneca, richiamate nelle Osservazioni sulla tortura di Pietro Verri, possono ben diventare il filo conduttore di questa formidabile trattazione contro le infamie di un sistema giudiziario basato sul metodo inquisitorio, cioè sulla confessione ottenuta con la tortura.

 

Il trattato verriano risale al 1777 e narra - con maggior efficacia della manzoniana Storia della colonna infame - degli strazi inferti a persone innocenti dall’oscurantismo degli inquisitori e dalla “stolidaggine” del volgo. “La maggior parte de’ giudici gradatamente si è incallita agli spasimi della tortura...lo fanno credendola necessaria alla sicurezza pubblica” annota il Verri. Ma quante scelleratezze sono state perpetrate in nome del presunto interesse pubblico?

 

“Anche i giudici - incalza il Verri - che condannavano ai roghi le streghe e i maghi del secolo passato, credevano di purgare la terra da’ più fieri nemici, eppure immolavano delle vittime al fanatismo e alla pazzia”. La storia umana è ricolma di vessazioni illiberali, che continuano anche all’alba del terzo millennio a martoriare il Pianeta, non solo presso quelle nazioni che giacciono sotto il tallone di regimi dispotici ma anche nei paesi considerati più civili quando conservano retaggi inquisitori nelle pratiche giudiziarie.

 

Si potrà vedere quanto le Osservazioni del Verri siano ancora attuali, almeno per l’Italia dei “pentiti” (che a pagamento e con sconti di pena possono trascinare a giudizio il prossimo) e per l’Italia della carcerazione cautelare, comminata come tortura e immane pena preventiva mass-mediatica per ottenere forzate confessioni.

 

Dunque, Pietro Verri racconta della seicentesca pestilenza  scoppiata a Milano e lì giuntavi al seguito delle truppe imperiali penetrate nel Milanese dalla Valtellina. “Cento quarantamila cittadini milanesi perirono scannati dall’ignoranza” racconta il Verri. Anziché isolare il contagio (che “avrebbe forse con meno di cento uomini placato la pestilenza”) intimando a ciascuno di restarsene a casa, si fece di tutto per favorire la comunicazione del malore”, convocando addirittura una cristianissima “processione solenne per tutte le strade frequentate della città”. Sicché la pestilenza si propagò “prodigiosamente”.

 

A seguito di tale malintesa pietà scoppiarono “tai delirj” tra cui “si perdevano i cittadini anche più distaccati e gli stessi magistrati”, poiché “nei disastri pubblici l’umana debolezza inclina sempre a sospettare cagioni stravaganti, anzi che crederli effetti del corso naturale delle leggi fisiche”.

 

Quindi si arrivò a credere che la peste fosse dovuta alle unzioni praticate sui muri della città da disgraziati malcapitati. Così l’innocentissimo Guglielmo Piazza viene braccato, imprigionato, torturato orribilmente. “Che volete che dica?” - implorava - “non so niente”. Il Verri aggiunge: “Se gli avessero suggerito un’immaginaria accusa, egli si sarebbe accusato. Come avvenne puntualmente” promettendo “al Piazza l’impunità qualora palesasse il delitto e i complici”. Ecco perciò che “al terzo esame...pieno di attenzione per compiacere i suoi giudici, cominciò a dire che l’unguento gli era stato dato dal barbiere”.

 

L’innocentissimo barbiere Gian Giacomo Mora fu a sua volta imprigionato e torturato. Al crescere del “tormento”, egli protestava la sua innocenza ma infine cedeva: “Vedete quello che volete che dica, che lo dirò”. Gli inquisitori volevano che parlasse dell’unguento ed egli accondiscese. Il giorno dopo il povero Mora ritrattò: “Quell’unguento che ho detto non ne ho fatto mica, e quello che ho detto, l’ho detto per i tormenti”. Ma - testifica il Verri - “dovette alfine soccombere e preferire ogni altra cosa alla disperata istanza de’ tormenti”. La sfilza degli accusati si accrebbe, come meglio risultò gradito agli inquisitori: e gli innocenti - compreso il Piazza a cui venne ritirata la promessa impunità -  finirono smembrati, massacrati e infine scannati, vittime “dell’atroce fanatismo del giudice”.

 

Pietro Verri riepiloga mirabilmente l’iter inquisitorio che condusse all’infame epilogo: “Il metodo , col quale si procedette allora, fu questo. Si suppose di certo che l’uomo in carcere fosse reo. Si torturò sintanto che fu forzato a dire di essere reo. Si forzò a comporre un romanzo e nominare altri rei; questi si catturarono, e sulla deposizione del primo si posero alla tortura. Sostenevano l’innocenza loro; ma si leggeva ad essi quanto risultava dal precedente esame dell’accusatore, e si persisteva a tormentarli sinché convenissero d’accordo”.

 

Da questa orribile storia e da altri casi consimili, Pietro Verri ricava la convinzione che la tortura oltre che “intrinsecamente ingiusta”, non sia “un mezzo di scoprire la verità”. Anzi, molte volte “produce la menzogna”, lasciando il prigioniero alla mercé dell’inquisitore.

 

Nell’epoca contemporanea il moderno sistema di tortura è dato dalla pressione psico-fisica esercitata sull’individuo incarcerato prima del giudizio o sottoposto ad interrogatorio fuori dalle garanzie costituzionali. La sfera delle sue relazioni umane e sociali è vulnerata dalla gogna cui è sottoposto dal cosiddetto “circuito me-diatico-giudiziario” (cioè dalle relazioni tra mezzi di comunicazione e ambienti giudiziari) che rappresenta - nelle sue manifestazioni illecite - la più sofisticata forma di tortura psicologica contemporanea (si veda al proposito il saggio di Fulvio Gianaria e Alberto Mittone, Giudici e telecamere, edito da Einaudi nel 1994).

 

Peraltro, nulla di nuovo. Carcerari idest torqueri, carcerare una persona è uguale a metterla sotto tortura, raccontavano i premoderni. Vale a maggior ragione per i postmoderni, essendo la tortura contemporanea meno cruenta ma più tremenda di un tempo, riuscendo a dilatare attraverso i mass media l’ombra dell’infamia calata su una persona, per sottrarsi alla quale si è sovente disposti a tutto. L’abolizione della carcerazione preventiva potrà essere il prossimo passo di un concreto progresso civile.

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