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Dalla superiorità numerica alla sconfitta e alla strage: ottant’anni fa i tedeschi massacrarono i soldati italiani a Cefalonia

Il 15 settembre 1943, dopo difficili trattative con gli ex alleati, i 12mila italiani sulle isole Ionie danno avvio ai combattimenti coi tedeschi, conclusi con la sconfitta e la più grande strage compiuta dai nazisti contro i militari del Regio esercito. Ecco qui le vicende di alcuni trentini che parteciparono e riuscirono miracolosamente a salvarsi

Soldati italiani catturati a Corfù. Foto tratta da wikipedia
Di Davide Leveghi - 28 settembre 2023 - 07:55

TRENTO. “Il 14 settembre si passò a un pieno clima di guerra. Intanto giunse dall’Italia un radiogramma che ordinava di opporsi alle richieste tedesche. Il 15 il cielo si ricoprì di aerei Stukas, alle 14 iniziò la battaglia tra la divisione Acqui e l’esercito tedesco. Dopo i primi nostri successi, i tedeschi, grazie al loro dominio assoluto del cielo con l’aviazione, avanzavano continuamente massacrando la truppa con i bombardamenti e i mitragliamenti degli stukas”.

 

E’ con queste parole che il sottotenente di fanteria Arturo Lorandi descrive nella sua memoria autobiografica i fatti di cui fu testimone nel settembre 1943. Siamo a Cefalonia, nei giorni immediatamente successivi all’8 settembre. L’annuncio di Badoglio, che nella penisola ha determinato l’assalto tedesco ai presidi militari del Regio esercito (QUI l’articolo), sui fronti di guerra provoca altrettanta confusione. I soldati, privi di ordini chiari, reagiscono in diversi modi: c’è chi si arrende, chi accetterà di proseguire la guerra al fianco dei nazisti (QUI l’articolo) e chi preferirà l’internamento nei lager. C’è chi, infine, risponderà alle armi con le armi.

 

È quest’ultimo il caso delle isole Ionie. Passata sotto controllo italiano nella primavera del 1941, alla conclusione della fallimentare campagna di Grecia (QUI un approfondimento), Cefalonia assume con la sconfitta dell’Asse in Nord Africa un ruolo strategico. I nazifascisti temono infatti che gli Alleati possano sfondare su questo fronte, aprendosi la strada per la penetrazione nei Balcani. La presenza nell’arcipelago viene così rafforzata: sulla sola isola di Cefalonia il contingente italiano sale a 12mila uomini, mentre quello tedesco conta poco meno di 2000 unità.

 

“Spunta l’alba dell’8 settembre 1943 un giorno come l’altro – scrive il soldato vallarsero Giulio Costa nei suoi Ricordi della mia vita militare e della mia prigionia, conservati presso l’Archivio di scrittura popolare della Fondazione Museo storico del Trentino – più tardi dai nostri ufficiali apprendiamo che l’Italia ha chiesto l’armistizio al generale Eisenhower, comandante delle forze alleate anglo-americane. Fra di noi spontaneo si diceva finita la guerra, andiamo a casa. Non fu così. Incominciò così il mio calvario”.

 

Invischiato nei combattimenti sull’isola di Corfù, dove si trova con il suo reggimento d’artiglieria, Costa verrà poi catturato dalla Wehrmacht e condotto a Salonicco. Come lavoratore coatto, verrà spedito in Lituania, Polonia e Germania, riuscendo a sopravvivere e a raggiungere il Trentino solamente nell’ottobre del ’45.

 

Il suo destino, comunque, si intreccia a quello di tutta la divisione Acqui, sparsa nell’arcipelago delle Ionie. A seguito dell’annuncio e del conseguente caos, i tedeschi lanciano agli oltre 12mila italiani l’ultimatum di consegna delle armi e resa. Gli ufficiali del Regio esercito, dopo grandi discussioni, decidono però di non cedere, contando sulla superiorità numerica. Le complesse trattative intavolate con gli ex alleati saltano e, come scrive ancora Costa, “piuttosto che cedere le armi si passò alla battaglia”.

 

E’ il 15 settembre 1943: l’aviazione tedesca comincia a mitragliare le postazioni italiane e prepara l’avanzata delle truppe, rimpolpate dai rinforzi arrivati dal continente. L’ordine proveniente da Berlino è di non fare prigionieri. La divisione Acqui va punita per aver trattato e resistito al comando di consegnare le armi e arrendersi. La strage, diffusa e di massa, comincia proprio quel giorno, contravvenendo a ogni legge di guerra.

 

Continua Lorandi: “Incominciarono così a prendere prigionieri gli italiani. Gli ufficiali venivano subito fucilati, il massacro della truppa dipendeva dai reparti che incontravano. I giorni 17, 18, 19, 20 e 21 continuarono accaniti i combattimenti e i bombardamenti dell’aviazione. Il 22 settembre sulla strada di Sami sventarono l’ultimo attacco nostro e tutte le postazioni furono distrutte. La resa fu incondizionata. Era la sera del 22 settembre”.

 

Arrestato e ammassato con gli altri ufficiali, Lorandi viene a quel punto portato in una località divenuta poi tristemente nota e conosciuta come “Casetta rossa”, alla periferia di Argostoli, principale centro dell’isola. Insultato dai vecchi camerati e apostrofato come “verräter” (“traditore”), il sottotenente d’origine roveretana riesce miracolosamente a salvarsi per il semplice motivo di essere trentino.

 

Scrive così nelle sue memorie: “Ascoltata la mia dichiarazione mi fece (parla del sottufficiale tedesco che lo processa, ndr) riaccompagnare indietro da un soldato fino al lato posteriore della villa, dove trovai altri otto ufficiali trentini e triestini. Scoprii che era arrivato l’ordine che i nativi di Trento, Bolzano, Trieste e Belluno avevano salva la vita per grazia del comando tedesco. Ci presentarono una dichiarazione scritta che suonava pressappoco così: ‘Noi sottoscritti ci impegniamo con qualunque gradi a in qualunque condizione a collaborare con le forze armate tedesche e a combattere contro chiunque per la vittoria della Germania e per la resurrezione della nostra patria. Ci fu chiaro che non avevamo alcuna possibilità di scelta”.

 

Rimpatriato in Trentino e congedato per motivi di salute, Lorandi riuscì dunque a salvarsi. Ma pochi furono coloro che condivisero questa sorte favorevole. Sui numeri di Cefalonia la storiografia ha discusso molto, stimando che le vittime possano oscillare fra le 3500 e le 5000. Numeri impressionanti che fanno dell’eccidio di Cefalonia il più grande massacro commesso dai tedeschi nei confronti dei soldati italiani.

 

Fra questi, oltre ai caduti in combattimento e ai fucilati, troviamo anche coloro che morirono in mare. Il 28 settembre, infatti, un piroscafo carico di prigionieri a diretto verso il continente salta su una mina poco fuori il porto di Argostoli. Stessa sorte subirà un’altra nave con a bordo centinaia di soldati italiani nell’ottobre dello stesso anno, mentre una motonave anch’essa piena di prigionieri e attraccata presso la rada della vicina isola di Corfù verrà affondata assieme al suo “carico” da un attacco aereo alleato.

 

Questo articolo è ispirato dalla serie podcastSettembre ’43. Lo sfascio” della Fondazione Museo storico del Trentino con il patrocinio dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri. Se vuoi approfondire questa storia, con testimonianze dei protagonisti e interviste a esperti, puoi ascoltare l’episodio “L’isola della morte” su tutte le principali piattaforme streaming (QUI il link).

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