Non è ancora uscito, ma il libro "E allora le foibe?" suscita già polemiche. Gobetti: "Sul tema si è imposta verità ufficiale fatta di stereotipi e luoghi comuni"
Lo storico Eric Gobetti è stato nuovamente al centro di attacchi da parte dei giornali e delle organizzazioni di destra per un libro che uscirà il 14 gennaio, intitolato "E allora le foibe?". Non è la prima volta che il suo lavoro di ricerca viene criticato perché in contrasto con la narrazione dominante sulle vicende del confine orientale. "Sul tema si è imposta una verità ufficiale fatta di stereotipi e luoghi comuni. Chi la mette in discussione è tacciato di negazionismo"

TRENTO. “Su questo tema si è imposta una verità ufficiale fatta di stereotipi e luoghi comuni. Chi li mette in discussione viene immediatamente tacciato di negazionismo”. Non è ancora uscito, l'ultimo libro dello storico torinese Eric Gobetti, che già è partita la campagna denigratoria nei suoi confronti. Fra articoli di giornale e post sui social media, la destra italiana è insorta gridando al revisionismo e al negazionismo delle foibe.
Un trattamento analogo Gobetti lo aveva ricevuto il febbraio scorso, quando la sua partecipazione ad un affollato convegno sulla questione del confine orientale, sempre nel capoluogo piemontese, aveva scatenato la reazione delle organizzazioni neofasciste. D'altronde, parlare di questo tema nel Bel Paese è diventato sempre più difficile, soprattutto dopo l'istituzione di una giornata, il Giorno del Ricordo (10 febbraio), che ha cristallizzato e ridotto le complesse vicende di questa parte d'Europa in una narrazione distorta e incontrovertibile (ne avevamo parlato in tre diversi approfondimenti nella rubrica dedicata al tema della memoria Memory 27/1-10/2. QUI l'intervista allo storico triestino Jože Pirjevec, QUI l'intervista allo storico triestino Raoul Pupo, QUI una riflessione sulla legge che istituisce il Giorno del Ricordo).
“E allora le foibe?” (Laterza), in uscita il 14 gennaio, punta proprio a decostruire i luoghi comuni ormai largamente diffusi, contrapponendo l'unico elemento che, al di là delle interpretazioni, risulta necessario per comprendere davvero cosa sia avvenuto sul confine orientale: i fatti. “Il titolo nasce dalla frase che ripeteva Caterina Guzzanti nei panni della militante di Casapound Vichi – spiega – una frase che serve per evitare il dialogo. E questo è proprio il punto di partenza. Per gli studiosi parlare di questo tema, come di molti altri, è diventato sempre più difficile. Ma questo è un meccanismo che va fermato, perché gli studiosi devono poter analizzare le fonti, fare ricerca e dare le proprie interpretazioni liberamente”.
“Il problema nasce in questo caso per l'esistenza di moltissime pubblicazioni che non hanno nulla a che fare con l'analisi delle fonti – prosegue – se è legittimo, infatti, avere delle idee diverse, dall'altra non si può non partire dalle fonti. In questo mio libro, dunque, non voglio contrapporre la mia verità ad altre, ma partendo dalle fonti su cui tutti gli studiosi concordano, do la mia interpretazione”.
A dominare la narrazione sul confine orientale è il nazionalismo, che a fronte di decenni di repressione e oppressione degli slavi tende a isolare gli episodi in cui gli italiani sono stati vittime. “La verità ufficiale che si è imposta sul tema delle foibe non si basa sulle fonti bensì sugli slogan – prosegue Gobetti – si sente ad esempio ripetere che i territori in questione fossero italiani da sempre. È totalmente falso, perché diventano italiani dopo la Prima guerra mondiale e lo restano fino alla fine della Seconda, quindi per poco più di 20 anni. Sono terre in cui per secoli hanno convissuto gruppi linguistici differenti. A questo aspetto dedico uno dei tanti capitoli del libro, dove punto per punto analizzo cosa ci sia di vero e cosa di falso negli slogan”.
Istituita nel 2004 su iniziativa di esponenti dell'allora Alleanza nazionale “al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”, la ricorrenza del Giorno del Ricordo ha finito per inglobare non solo le memorie per troppo tempo marginalizzate degli esuli e delle loro famiglie, ma anche dei fascisti, le cui responsabilità sono intrinsecamente legate con il destino di quelle comunità.
“Il Giorno del Ricordo ha una connotazione bipartisan e nasce con l'intento di riunificare degli elementi politici diversi – spiega lo storico torinese – in realtà finisce per creare una spaccatura in cui si contrappongono i gruppi antifascisti e i neofascisti. Questo perché non si è voluto conoscere davvero il fenomeno, anzi. Ai promotori non interessava affatto che si conoscesse perché così si capirebbe che le colpe degli italiani sono più grandi di quanto si voglia credere. Il contesto in cui questi fenomeni avvengono è di un conflitto scatenato dai fascisti, un'aggressione in cui questi si macchiano di crimini di guerra. Ciò non significa che le vittime, e i tanti innocenti, dovessero pagare, ma ciò che manca nel Giorno del Ricordo è il riconoscimento da parte dello Stato italiano del contesto di crimini compiuti ai danni della popolazione slava”.
“Di fatto la narrazione ufficiale ha così finito per accogliere la retorica che fino ad allora era stata propria dei soli neofascisti – continua – al di là dei numeri gonfiati, ci sono dei presupposti di verità in questa propaganda, che è diventata tout court la politica memoriale dello Stato italiano. Se vediamo chi ha ricevuto le medaglie che il Giorno del Ricordo riconosce agli infoibati, ci rendiamo conto che molti sono ex militi delle organizzazioni fasciste. Persone che hanno combattuto per la Rsi e quindi, in queste terre che erano state di fatto annesse al Reich, per i nazisti (il riferimento è alla Zona d'operazioni del Litorale Adriatico, composta dalle province di Udine, Gorizia, Trieste, Lubiana, Fiume e Pola, che assieme alla Zona d'operazioni delle Prealpi, con le province di Trento, Bolzano e Belluno, vennero istituite a difesa del territorio tedesco dopo l'8 settembre 1943, ndA)”.
“In conclusione questo non può che portare a problemi nei rapporti con altri Paesi europei come la Slovenia e la Croazia, rapporti tesi proprio perché non si riconoscono le responsabilità. Immaginate la cancelliera tedesca che va in Polonia e dichiara che i polacchi hanno ammazzato migliaia di tedeschi durante la guerra senza nemmeno citare Auschwitz e i crimini commessi dai nazisti?”.
A riguardo Gobetti richiama l'iniziativa promossa dai presidenti della Repubblica italiana e slovena Sergio Mattarella e Borut Pahor dello scorso 13 luglio, quando in occasione del centenario dell'incendio del Narodni Dom da parte degli squadristi triestini, i due si tennero per mano di fronte ai cippi memoriali della foiba di Basovizza e degli antifascisti sloveni fucilati nel 1930 – sul tema Gobetti ha scritto un'interessante riflessione per il sito di storia pubblica “Lastoriatutta.org” (QUI il link).
“Sono stati molto abili nel veder riconoscere le proprie vittime senza dover fare i conti con le responsabilità dei crimini di guerra italiani e dell'esodo giuliano-dalmata – continua – fa parte della logica della politica, che chiaramente funziona diversamente dalla ricerca storica. In un moderno Stato democratico, però, sarebbe più onesto e necessario che si riconoscessero le responsabilità storiche oltre che le vittime e che si accettasse la complessità della storia. Intere nazioni si sono costruite sui miti vittimistici, ma sono nazioni che hanno problemi perché si fondano su elementi falsi”.
“Guardiamo alla Jugoslavia, che crolla quando il suo mito fondativo, la Resistenza, viene messo in discussione. Attorno alla guerra di liberazione come conflitto popolare e di massa si è costruito un immaginario mitologico, quando in realtà questi territori vissero una colossale guerra civile in cui rimasero sul terreno 1 milione di vittime, in gran parte provocate da uccisioni reciproche. Anche in quel caso, dunque, si è costruita la storia più comoda, ma prima o poi i nodi vengono al pettine e così è avvenuto anche in Italia”.
Smontare la narrazione ufficiale e i miti cristallizzati attorno alle complesse vicende del confine orientale diviene così di decisiva importanza per la memoria pubblica del nostro Paese. “Ai problemi complessi vanno date risposte complesse – conclude – se non creassimo dunque un Olimpo di martiri, con date e così via, avremo un Paese più libero e democratico”.