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Un evento “senza Storia”: si possono ricordare gli alpini caduti in Russia dimenticandosi che erano degli invasori?

Si celebra quest’anno, per la prima volta, la Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini. Istituita nel maggio 2022 e approvata senza voti contrari in Parlamento, questa ricorrenza presenta però non poche problematiche. E ancora una volta strumentalizza una data dimenticando completamente il contesto in cui avvennero i fatti

Foto tratte da wikipedia
Di Davide Leveghi - 26 January 2023 - 09:52

La Repubblica riconosce il giorno 26 gennaio di ciascun anno quale Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini, al fine di conservare la memoria dell’eroismo dimostrato dal Corpo d’armata alpino nella battaglia di Nikolajewka durante la Seconda guerra mondiale, nonché di promuovere i valori della sovranità e dell’interesse nazionale nonché dell’etica della partecipazione civile, della solidarietà e del volontariato, che gli alpini incarnano

 

TRENTO. Il 26 gennaio 1943, gli alpini in ritirata dalla Russia combatterono nel villaggio di Nikolajewka una terribile battaglia, riuscendo in parte a forzare il blocco sovietico e a proseguire verso Ovest. A 80 anni di distanza, per la prima volta, in Italia si celebra la Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini, istituita per volontà del Parlamento italiano nella primavera del 2022.

 

Con la legge n.44 del 5 maggio 2022, infatti, la Repubblica ha deciso di riconoscere nella giornata del 26 gennaio una ricorrenza memoriale per “conservare la memoria dell’eroismo dimostrato a Nikolajewka” e per promuovere i valori incarnati dal corpo degli Alpini: “sovranità”, “interesse nazionale”, “etica della partecipazione civile, della solidarietà e del volontariato”. Ma perché si è deciso questo giorno e quale significato porta con sé?

 

Un passo indietro nella storia, anche in questo caso, aiuterebbe a capire di cosa stiamo parlando. Quei tragici fatti di Nikolajewka, magistralmente raccontati dal capolavoro di Mario Rigoni Stern Il sergente nella neve (1953), rappresentarono infatti una memoria indelebile per chi vi partecipò, ma alle orecchie dei più giovani o dei meno informati potrebbero apparire come lontane ombre del passato, indistinguibili nei loro contorni.

 

Il 26 gennaio 1943, la 2ª Divisione alpina Tridentina fu coinvolta negli scontri con l’Armata Rossa chiusasi a tenaglia attorno alle forze nazifasciste in ritirata. Con il rischio di rimanere bloccati in una sacca, i soldati italiani diedero vita a una battaglia sanguinosa e leggendaria, capace, nonostante l’alto numero di vittime, di rompere il blocco sovietico e di permettere così la prosecuzione della ritirata (per chi combatté, chiaramente, altri furono presi prigionieri).

 

La divisione alpina interessata dall’episodio faceva parte sin dall’estate del 1942 dell’Armir, l’Armata italiana in Russia, nata dall’aggiunta di oltre 140mila uomini al precedente Csir, Corpo di spedizione italiana in Russia, attivo nella campagna d’aggressione all’Unione sovietica sin dagli esordi (per un totale di 230mila uomini). Formato in fretta e furia da un Mussolini che non voleva rimanere tagliato fuori dall’ennesimo salto in avanti dell’alleato tedesco, il Csir partecipò all’Operazione Barbarossa con funzioni soprattutto di retroguardia, rendendosi complice, in quel contesto, della repressione antipartigiana e antiebraica effettuata mano a mano che il territorio sovietico veniva occupato dagli invasori (QUI l’articolo).

 

L’avanzata nazifascista in Unione sovietica procedette a gonfie vele fino all’inverno del 1941, quando il fronte si stabilizzò alle porte di Mosca, Pietrogrado e, verso il Caucaso, a Stalingrado (oggi Volgograd). Fu in quest’ultima, in maniera esemplare, che le sorti di quel tremendo conflitto – l’Unione sovietica contò, alla fine della guerra, oltre 25 milioni di vittime fra soldati e civili si rovesciarono a favore degli invasi. E fu in quel momento, nell’inverno ’42-’43, che prese avvio la controffensiva sovietica.

 

Per l’Armir, così come per i tedeschi e gli alleati nazifascisti (rumeni e ungheresi su tutti), cominciò così la tragica fase della ritirata. Inseguiti dall’arrembante avanzata dell’Armata Rossa, infreddoliti, male equipaggiati e per lo più a piedi, i soldati italiani vissero un’odissea nella speranza di tornare sani e salvi a casa (i caduti totali furono 75mila, quasi 30mila i feriti e congelati). Fu in questo contesto, come emerso da molte più o meno autorevoli testimonianze, che fra gli alpini iniziarono a serpeggiare sentimenti antitedeschi e antifascisti. Sentimenti che una volta giunti a casa, finirono per fare presa anche fra la popolazione – ancor più importante, però, per convincere molti italiani a contrastare il fascismo sarà l’arrivo della guerra in casa.

 

Nikolajewka, dunque, sta in questo contesto qua. Fu una battaglia dove sì il sacrificio italiano risultò alto e doloroso, ma comprensibile solo se legato alle motivazioni che vedevano lì, in quel momento, gli Alpini della Tridentina: l’aggressione all’Unione sovietica, l’invasione di un Paese con tutto il suo portato atroce di guerra e di sterminio – fu nella “retroguardia” dell’Operazione Barbarossa che si attuarono i primi tentativi di “soluzione finale” della questione ebraica.

 

Ancor più significativo, pertanto, risulta il fatto che questa giornata memoriale lambisca proprio la Giornata della Memoria e del ricordo delle vittime della Shoah, con il rischio, come scritto dagli storici Francesco Filippi, Carlo Greppi e Eric Gobetti in un articolo apparso su Patria indipendente nell’aprile scorso proprio a seguito dell’approvazione in Senato della legge istitutiva, di creare “un grande minestrone di memoria in cui il ricordo della deportazione e dello sterminio si intreccia con quelo di chi difese armi in pugno proprio il sistema totalitario che produsse lo sterminio”, “un cortocircuito clamoroso, che probabilmente porterà allo svilimento della memoria pubblica nel suo complesso”.

 

Oltre che le parole, come diceva Nanni Moretti in Palombella rossa, anche le date contano (l’invasione russa dell’Ucraina, tra l’altro, era cominciata da poco). E la scelta operata dal nostro Parlamento ci dice che o i nostri politici la storia non la sanno o agiscono in malafede (senza distinzione fra schieramenti). Perché, infatti, dovremmo ricordare il sacrificio degli Alpini proprio in una battaglia combattuta da invasori? Perché non possiamo ricordarli nel grande sacrificio di sangue compiuto – una volta dismessa la divisa – nella Resistenza o nella partecipazione convinta e indispensabile alle attività di protezione civile, come in Friuli nel 1976 o a L’Aquila nel 2009?

 

Alla domanda se si possa commemorare un fatto della storia nazionale dimenticandosi della Storia, cioè del contesto in cui quel fatto avvenne, il Parlamento, tristemente e ancora una volta (vedi Giorno del Ricordo, QUI un approfondimento), ha dimostrato di saper dare una risposta: sì.

 

Questo articolo apre il ciclo di interviste e riflessioni sulla memoria e le ricorrenze che marcano questa parte dell'anno. Memory: 27/1-10/2, rubrica di approfondimento giunta alla sua "quarta edizione" vuole interrogarsi sul senso, le potenzialità e i rischi dell'insistenza sulla memoria nello scenario pubblico. La sua prorompente ascesa, infatti, si è accompagnata alla parallela scomparsa o alla riduzione dello spazio delegato alla Storia, come analisi critica del passato. Memory consiste nel mostrare come le “tessere” della memoria – i ricordi – non coincidano mai perfettamente tra loro.

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